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EAST WIND POT |
East wind pot |
Musea / Poseidon |
2006 |
JAP |
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In un periodo in cui tutto il prog sembra provenire da un Giappone prolifico come non mai, ecco un altro prodotto del Sol Levante.
Questa è l’opera prima degli East Wind Pot, quattro ragazzi, insieme dal 1997: Yuko Tsuchiya tastiere e composizione, Daisuke Yamasaki, sax e flauto, Yoshiyuki Sakurai al basso e Eiichi Tsuchiya alla batteria. Quindi 6 brani dai 5 ai 12 minuti, per complessivi 48 minuti. In realtà i brani avrebbero dovuto essere 9, ma avrebbero portato la durata troppo oltre e portare ad un doppio CD l’opera prima, sembrava un po’ pretenzioso. Così esiste un ghost CD-R dall’emblematico titolo “Another Side” che raccoglie i restanti 3 brani (i cui samples sono ascoltabili sul sito del gruppo. Un brano in particolare titola “You Weren't Listening, But Didn't Matter Anyway” dando già idea da dove l’ispirazione giunga) più un riarragiamento della “April Dance” presente sull’album in recensione.
Veniamo alle caratteristiche del lavoro principale. Fin dalle prime tracce si apre un suono fusion e belle pennellate canterburiane. Saltano subito all’orecchio le buone capacità tecniche degli strumentisti. Non mancano momenti più Americani in stampo Spyro Gyra o Return to Forever.
A tratti il jazz si perde per lasciare posto ad un organo dall’andazzo più blues, come nella seconda parte dell’opener “Dr.Bloodmoney”, dove il tutto si trasforma per farsi abbracciare da stilemi Traffic o Colosseum. Negli oltre 12 minuti del secondo brano “An Argument With Illya Kuryakin Whom I Loved In My Childhood” ancora riferimenti a Chick Corea, con un intro di piano veramente azzeccato. Nello sviluppo successivo riaffiorano Pierre Moerlen e Stomu Yamash’ta, con dei bei giri percussivi di vibrafono anche su tempi complessi e poliritmici. Lo stridulo suono di un Fender eighty-eight ci porta agli anni ’70 per un lungo assolo dal sapore nostalgico e vintage.
Geneticamente diverse, ma allo stesso tempo coerenti con lo stampo dei primi due brani, le altre tracce si snodano tra assolo di sax pendenti più verso Wayne Shorter, piuttosto che verso Elton Dean o Jimmy Hastings, tra bei tappeti o lunghe galoppate di pianoforte, momenti esaltanti di jazz soffuso o più aggressivi e tendenti ad un jazzy meno strutturato. Talvolta salta fuori un basso che non sempre è ritmico, ma spesso fugge via lungo linee melodiche che sarebbero congeniali ad uno Miroslav Vitous. Menzione per l’ultimo e già citato brano “April Dance” dove i Gong di Pierre Moerlen, incontrano i Weather Report in un mix ben riuscito. Il brano va verso la conclusione con un discreto assolo di batteria. Nulla a che vedere con Terry Bozzio o con “Il Professore”, ma piacevole.
Analisi finale. Un bel prodotto. Nulla di nuovo e nulla di trascendentale, forse nemmeno un disco da ascoltare e riascoltare nel tempo, ma un disco soddisfacente ricco di momenti accattivanti, ben suonato, ben inciso e dedicato essenzialmente agli amanti del jazz contaminato da un rock non troppo cerebrale e non troppo celebrativo. Positivo.
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Roberto Vanali
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