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ELIPHASZ |
Le royaume des poussieres |
autoprod. |
2012 |
CAN |
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Nell’apprestarmi ad ascoltare questo debutto speravo proprio che possedesse qualche elemento che mi ricordasse che siamo in Quèbec, terra decisamente fertile, soprattutto nei decenni passati, in quanto a progressive rock; la realtà è che questo disco non ha una connotazione geografica particolare e somiglia a tante altre cose ascoltate qua e là e le intense emozioni che il leader François Vachon (chitarra, mandolino, piano e voce) prometteva di farci provare in realtà non arrivano mai. Il punto di partenza è quello della heavy band Merkabah dalla quale François ha tratto il materiale qui presentato, riadattandolo a una nuova visione della musica incentrata sul Prog ma impreziosita, almeno nelle sue intenzioni, da elementi elettronici, pop e ambient e trascrivendo i testi in francese. Dal gruppo di origine proviene anche la cantante Jacinthe Poulin ed entrano in gioco in questa nuova avventura anche Louis Doyon al basso, Nicolas Bilodeau alla batteria e Mathieu Fiset al piano. Impossibile non notare che il pezzo di apertura è una traccia di quasi venti minuti ma purtroppo realizziamo ben presto che tutto questo tempo non è stato ben impiegato. Il lungo strumentale è alla fin fine un polpettone insipido che ruota attorno a poche idee che si avvicendano in modo schematico. La melodia non manca ma c’è poca enfasi e i cambiamenti di situazione si succedono come tanti blocchi separati buttati lì uno dopo l’altro. Questo brano sarebbe potuto durare molto meno o anche molto di più, non sarebbe cambiato assolutamente nulla. A questo punto sono molto curiosa di ascoltare i pezzi cantati e vengo accontentata subito già dalla traccia successiva intitolata “Mythomane”. La voce di Jacinthe è per lo meno piacevole, anche se non possiede una grossa estensione né una grande personalità ma forse l’aspetto più negativo è un effetto karaoke dato dalla base musicale sempre schematica e regolare, con batteria scandita e decisamente fastidiosa ed arrangiamenti piuttosto elementari, con le tastiere che sembrano a tratti quasi suonate con un solo dito. Con un po’ di fantasia potrei tirare in ballo certa melodia dei Camel o certe visioni di Oldfieldiane ma la triste realtà mi riporta a certa scadente New Wave e a una sinfonicità che è presente solo nelle intenzioni di chi avrebbe voluto scrivere un disco Prog e non ci è riuscito. Il risultato è ancora più traballante se la voce di Jacinthe è affiancata da quella di François, come nella successiva “Origines”, e la sensazione è che i due tendano ad andare per conto loro rispetto ad una musica che tra l’altro è regolarmente scandita da ritmi da metronomo. Davvero non c’è nulla di sperimentale in questo album che è tutt’al più un campionario di basi musicali bruttine con pochissimo da salvare. Appena più robusta è la traccia di chiusura, “Oniria”, grazie al supporto della chitarra elettrica, ma non si può certo dire che questo pezzo brilli in quanto a fantasia. Mirare alle cose semplici ed essenziali mi può andare anche bene ma non si dovrebbe mai fare a meno del buon gusto e del sentimento. Vale la pena dilungarsi ancora? Non potrei che aggiungere particolari negativi ad una prova che giudico abbastanza imbarazzante, quindi mi fermo qui.
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Jessica Attene
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