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EXPERIMENTAL QUINTET |
Atlantis |
Soft Records |
2012 |
ROM |
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Ci muoviamo sul piano delle leggende, sappiatelo, e i membri di questa vecchia band dei Seventies, spuntati fuori dopo tanti anni, non fanno nulla per dissipare le domande e i dubbi che li riguardano. Ad esempio il tastierista Eugen Tunaru, che ora vive a Montreal, non ha mai chiarito se il fantomatico album, intitolato forse "Aminitiri despre Viitor" o forse “Flori”, risalente al 1976, è esistito davvero e non credo che abbia molta voglia di farlo, visto anche che questo clima mitologico accresce sicuramente l’appeal della sua musica. Sappiamo di per certo che tanto tempo fa nel conservatorio di Cluj c’era una band, gli Experimental Quartet (più tardi diventati Quintet), che vinsero tantissimi premi studenteschi mettendosi in evidenza per la loro musica che mescolava jazz rock e soluzioni sinfoniche. Il gruppo collezionò qualche passaggio radiofonico e diverse apparizioni dal vivo suscitando l’entusiasmo dei cultori del Progressive Rock che all’epoca spopolava anche in Romania. Sappiamo che nella formazione c’erano, a parte Eugen, Vali Farcas alla chitarra, autore della musica assieme all’appena citato tastierista, Nicky Bucaciuc al basso, Puiu Delioran alla batteria e Gigi Marcovici al flauto. Quando il gruppo sembrava caduto per sempre e definitivamente nell’oblio, spuntano fuori tre membri originali, Eugen, Vali e Nicky, ai quali si è aggiunto un giovane batterista, Dominic Csergö, e tutti assieme, dopo soli due giorni di prove, hanno tenuto un concerto al night Big Mamou di Bucarest nell’Agosto del 2010 che poi è confluito in questo CD. I pezzi che possiamo ora ascoltare, nove in tutto, appartengono in parte al repertorio storico del gruppo e in parte sono nuovi. Si tratta di brani essenzialmente strumentali e le pochissime linee vocali non si sa neanche a quali dei musicisti appartengano. Anche il flauto che si sente qua e là non si sa bene da chi sia suonato. La qualità audio leggermente traballante, il sapore vintage degli strumenti, l’approccio istintivo del gruppo danno quasi l’idea che la musica appartenga a vecchi nastri polverosi recuperati chissà dove, ma si tratta solo di un artificio perché, come ho già detto, questi suoni provengono di fatto dal 2010. Poco male comunque perché tutta questa approssimazione ci aiuta in un certo senso a calarci nel contesto storico del gruppo. Se pensiamo alla scena rumena degli anni Settanta, conoscendo i gruppi di maggior valore che la popolavano, Phoenix in prima linea, un pezzo come quello che apre questo CD, “Quintet no 2”, fa pensare davvero a qualcosa che poteva competere ai livelli più alti. Troviamo elementi classicheggianti graziosi, inserti di flauto, arrangiamenti movimentati, riff di chitarra sanguigni in un insieme che ricorda EL&P, i connazionali Savoy, o anche la nostrana PFM e gli stessi Phoenix in un insieme sonoro suonato con turbolenza e determinazione. Ritroviamo pallidi elementi folk, accenti jazzati e una grande sinfonicità che sicuramente all’epoca avranno fatto davvero colpo, contribuendo non poco ad alimentare l’alone leggendario del gruppo. Purtroppo però dove stia precisamente la verità non lo sappiamo e dobbiamo accontentarci di quello che c’è e del potere della nostra immaginazione. “Starship” presenta suoni più ruvidi dai connotati hard blues, con un organo potente e ritmi lanciati mentre “Intergalactic dream” è intrisa di morbida psichedelia con visioni quasi Cameliane. “Memories of the Future” (“Aminitiri despre Viitor” in rumeno) è un altro bel pezzo, dalle trame oscure che in parte potrebbero ricordare persino il Biglietto Per L’Inferno. Più ariosa è invece “Flowers” (o meglio “Flori”), con un flauto armonioso e qualche linea di canto dal sapore anticato che offre sensazioni quasi pop-beat. Fra i pezzi più curiosi c’è senza dubbio “Atlantis 1” che presenta ritmi festosi e giri di tastiere che ricordano un po’ i disegni melodici delle cornamuse. “Atlantis 2” è invece più imponente con orchestrazioni più sontuose e belle accelerazioni un po’ fusion. Il pezzo di chiusura, “Giordano Bruno”, presenta invece uno stile dal taglio più moderno con ampie parti chitarristiche e un cantato abbastanza sgraziato. Va da sé che se questa fosse davvero una vecchia registrazione perduta, il suo valore sarebbe inestimabile e farebbe luce su aspetti nascosti del rock sotterraneo rumeno di quegli anni, purtroppo però è una specie di ricostruzione basata su ricordi e su fonti che non possiamo verificare. Non sappiamo quanto tutto questo sia aderente al passato e quali siano le innovazioni apportate alle composizioni di un tempo, d’altra parte ci sembra che la band sia poco propensa a dare spiegazioni. Così come è questo lavoro somiglia a uno strano reperto archeologico incrostato, in cui si intravedono cose molto interessanti, che sicuramente è in grado di esercitare il suo fascino su menti curiose e appassionate della musica dei Seventies degli ambienti sotterranei e della scena dell’Est in particolare. Se questo fosse stato un CD nuovo di zecca su tutti i fronti forse non ci saremmo neanche soffermati più di tanto ma è ovvio che la sua valutazione va necessariamente contestualizzata.
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Jessica Attene
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