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ESCAPETHECULT All you want to Cultkr 2014 FRA/SVE/RUS/USA

Tutto ciò che si vuole per sfuggire ai “culti” che ci tengono legati e che creano le diseguaglianze sociali. Va inteso così il concetto espresso fin dal moniker con una “T” sottosopra, che appare di proposito come una croce capovolta. C’è da scommettere che tanti non vedranno (molto perversamente) l’ora di individuare una più che evidente dichiarazione satanista, ma siccome stavolta l’intento è quello di portare avanti un messaggio di sovversione degli schemi indotti in modo dogmatico… beh… tanto i giovani esaltati quanto i vecchi aspiranti inquisitori se ne dovranno fare una ragione e quindi sforzarsi di soprassedere. “All you…” è il termine di cinque lunghi anni di studio e di dure prove, che hanno portato il bassista siberiano Peter G. Shallmin dei Kamlath a creare un supergruppo definito tale già dall’altisonante dichiarazione di intenti, chiamando a sé il cantante francese Matthieu Romarin (Uneven Structure), il chitarrista svedese Mike Wead (King Diamond/Mercyful Fate) – nominato al premio Grammy – e soprattutto Tim Alexander, sconvolgente batterista di Primus e A Perfect Circle (operato di recente al cuore, peraltro).
Supergruppo, dicevamo. Con tutto ciò che ne può conseguire, tra attese ed eventuali delusioni. Effettivamente, in queste situazioni, buona parte delle volte il risultato non è quasi mai stato degno delle parti chiamate in causa, portando ad una somma finale “sbiadita” e dal sapore insoddisfacente. È il caso anche degli Escapethecult? Andando a leggere le prime entusiastiche recensioni internazionali, si direbbe di no. Ma per farsi un’opinione degna di essere chiamata tale bisogna prima ascoltare con le proprie orecchie, magari più volte; e già da una prima ripassata ci si renderà conto che a differenza delle realtà musicali sopra menzionate, il neo gruppo non mira affatto a stupire – magari rischiando anche di eccedere, fattore comune a buona parte delle band di origine – bensì ad assestarsi su un andamento pressoché costante, che alla fine potrebbe pure portare qualche sbadiglio. Di certo, il mid-tempo quasi onnipresente porta in qualche modo a sviluppare un approccio ai pezzi da parte della sezione ritmica assolutamente degno di nota, con Shallmin capace di suonare una miriade di note tutte scelte con estrema cura e che allo stesso tempo scandiscono perfettamente l’incedere dei brani. Per non parlare poi del drumming di Alexander, assolutamente “tentacolare” e costante, come fosse animato da una motrice a moto perpetuo. Nelle iniziali “Backfired” e “Clandestine”, soprattutto per il modo di cantare di Romarin, praticamente sempre uguale a se stesso, pare di sentire gli Audioslave più tristi supportati però da una sezione ritmica (niente da fare, è il fulcro del progetto) tipo quella dei Fates Warning di “Parallels” (1991). Musica di per sé ermetica, quindi, che va assimilata lentamente e senza farsi prendere dalla tentazione di voler andare subito avanti. Ci sono però un paio di problemi. Innanzi tutto, ascoltando l’album, non si capisce se qua si stia parlando di heavy rock, pseudo-prog rock o prog-metal. Ma volendo questo sarebbe un ostacolo di poco conto, se si ascoltasse Musica con la “emme” maiuscola. Il punto cruciale, invece, è che alla voce non ci sono né Chris Cornell e né Ray Alder, che davano espressione – in maniera diversa – a pezzi tendenti un po’ alla monotonia. E non c’è nemmeno uno come Daniel Gildenlöw dei Pain of Salvation con la sua particolare teatralità. Non che Romarin non sappia cantare, sia chiaro, ma è stato inquadrato in un contesto in cui sembra di sentire uno che ci parla sempre delle stesse drammatiche cose con il medesimo tono di voce, senza cambiare mai discorso. Un effetto probabilmente voluto, ma è altrettanto probabile che chi sta ad ascoltare finisca per scocciarsi davvero!
Ecco perché il singolo “I’m Absolute”, molto più articolato, dà ben altre sensazioni, con un Shallmin davvero sopra le righe. Così come la (finalmente) sostenuta “Tired Of The Past”, tra le cose migliori, in cui si dà spazio anche all’abilità di Mike Wead e si spinge Romarin ad andare oltre (soprattutto nella seconda parte della composizione), a non somigliare pedissequamente ai tanti cantanti del depresso rock duro statunitense del post-ninties. Vocalist praticamente tutti uguali tra loro, sulle medesime frequenze medie, tra cui spicca comunque il nome di Maynard James Keenan dei Tool, più volte usato come metro di paragone. Il ritmo sostenuto viene poi portato avanti anche nelle conclusive “This Time Will Come” e “Where No Grown Up Grapes”, dove Wead continua a farsi valere. Probabilmente l’incedere generale, con la successiva evoluzione appena accennata, è sostanziale per sviluppare le idee espresse nei testi molto interessanti ad opera di Shallmin e Romarin, assieme alle belle, originali ed evocative immagini presenti nel libretto, create da Igor Omodei.
Non un album brutto/mediocre e nemmeno quell’uscita epocale che tanto si sarebbe tentati di sbandierare. Sicuramente un lavoro suonato molto bene, ma su questo c’erano ben pochi dubbi. Prendetelo come un insieme di canzoni di rock duro, impegnato e malinconico, con ritmiche però ben al di sopra di un paio di spanne rispetto agli standard generali.


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Michele Merenda

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