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EYOT |
Drifters |
Neuklang Records |
2013 |
SRB |
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Vincitori dell’edizione del 2009 dell’Umbria Jazz Balkanic Windows Competition e del Midem Off Showcase di Cannes nel 2012, forti di un ottimo debutto discografico, “Horizon” del 2010, e con centinaia di concerti sulle spalle che li hanno portati in diciotto paesi diversi, i quattro musicisti serbi tornano con un album destinato a confermare tutti i loro successi. La loro formula musicale è abbastanza particolare e mescola sofisticate cadenze fusion, eleganti soluzioni classiche, dettate in prima istanza dal pianoforte di Dejan Ilijic, e fragranze balcaniche, polverizzate in ambientazioni sonore ricche di atmosfera. La base ritmica, a cura del batterista Milos Vojvodic e del bassista Marko Stojiljkovic, è geometrica, solida, costante e ripetitiva. Essa è il semplice vettore che lancia le melodie magnetiche del pianoforte, minimali ed accattivanti, basate anch’esse, spesso e volentieri, sulle ripetizioni. La chitarra di Sladjan Milenovic, da parte sua, aggiunge giusto un tocco di colore ed elettricità. Ecco che il piano glaciale di “She Is Dreaming of a Better Day”, l’album è appena iniziato, fa venire i brividi. E’ proprio il piano che guida il gioco, con le sue melodie limpide e vibranti mentre i disegni ritmici, sostenuti, sono qualcosa di distante. Il tutto gradualmente si amalgama in una specie di sognante bolero ed il brano cresce, sull’onda della stessa melodia, acquisendo gradualmente dettagli e corpo. Questo crescendo, seppure basato su giochi ripetitivi, genera una forte tensione emotiva. La musica è fluida e potente, a volte misteriosa e indugiante o ancora straniante e trasognante. Questo è in un certo senso il segreto del gruppo e l’intera opera, pur con le sue varianti, è costruita così. A volte i richiami al folk balcanico, che sono comunque molto sfumati, in questo contesto di stampo fusion mi ricordano un po’ gli Esthema, come ad esempio avviene in “The Crest of the Wave”, anche se qui la scelta degli strumenti è più tarata sul versante rock. Il tessuto musicale di “At Source” è appena più sfaldabile ed i colori sono più tenui. La parte ritmica è più discreta e si aggiunge qualche piacevole tocco spacey. Il piano, che è sempre l’elemento centrale, si muove in spazi molto dilatati, con le sue melodie trasparenti che a volte si arrotolano in arabeschi folkish. Le nuance jazzy sono intriganti e donano affabilità ad un brano dai tanti meandri. Anche “Coils” propone schemi ritmici dagli incastri regolari e perfetti sui quali si erge il piano, leggero e fantastico, suonato come se Dejan si fosse dimenticato di tutto il mondo circostante, compresi tutti gli altri strumenti. Il suo effetto è molto romantico a contrasto con il drumming che è un trip di loop regolari. Con la breve “We’ll Get There”, dagli strani impasti elettronici, siamo ormai a metà cammino e “Drifters”, la title track, non è che l’ennesima prova di come, giocando con pochi elementi, si possa agire profondamente sullo stato d’animo di chi ascolta. Il brano, con i suoi suggestivi sfondi musicali, tende, secondo una formula che ormai conosciamo, ad accelerare gradualmente generando una specie di ansia e portando alla fusione di ogni elemento. In “Firebird”, stuzzicante e particolareggiata, gli intrecci movimentati del piano questa volta intersecano alla perfezione quelli del basso e della batteria, mentre nella conclusiva e lunga (tredici minuti) “The View Trough the Blurry Window” prevalgono le atmosfere rarefatte costruite su reticoli morbidi fra piano e chitarra. Qui il piano offre scenari di immensa solitudine e la musica, introspettiva e straniante, sembra perdersi nei suoi loop in una deriva di sensazioni mutevoli ed incerte. Vi ho accompagnato così, con i miei commenti, alla fine di un disco singolare e pittorico, che mira a generare sensazioni più che a stordire con sfoggio di capacità tecniche che a questi musicisti di certo non mancano.
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Jessica Attene
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