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BILL BRUFORD'S EARTHWORKS |
Heavenly Bodies - an Expanded Collection |
Summerfold Records |
2019 |
UK |
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Per chi pensa che parlare di un disco di Bill Bruford richieda una breve o lunga cronistoria della sua carriera non avrà soddisfazione. Se vogliamo fare, velocemente un excursus delle band che lo hanno avuto al seggiolino, indicativo e volutamente non esaustivo, eccolo: Yes, King Crimson, Genesis, National Health, Gong, UK. Dopo una mezza carriera dedicata al progressive, sempre più riluttante a proseguire in ambiti nei quali probabilmente non aveva mai creduto, mise sui piatti della bilancia una incerta prosecuzione di carriera nel progressive, sempre meno ascoltato e un cambio radicale con una incerta prosecuzione di carriera nel jazz. E decise per la seconda. Gli Earthworks ebbero essenzialmente due periodi di vita. Il primo dal 1987 al 1993, quando Robert Fripp rimise Bruford alla batteria dei King Crimson e dal 1997, quando lo stesso Robert Fripp decise di poterne fare a meno (o viceversa?) al 2006. Nel corso dei due periodi trascorsi, le formazioni subirono numerosi cambiamenti e molti ottimi professionisti si alternarono nella band. In occasione della nuova formazione del 1997 uscì il CD chiamato “Heavenly Bodies” una raccolta a singolo CD dei migliori brani, selezionati da Bruford stesso, tratti dal primo periodo della band. Questa uscita expanded non fa che riprendere il primo volume e aggiungerne un secondo con brani tratti dal secondo periodo e alcuni bonus. Già si è detto che tutto questo deriva dalla sua svolta jazz, quindi sui contenuti poca sorpresa, anche per chi avesse smesso di seguirlo dopo l’abbandono dei temi progressive? Ovviamente e come sempre, non è tutto così semplice e lineare. Il jazz, ancora più del progressive ha storia lunga, complessa, diramata, fatta di tantissimi aspetti musicali e, non dimentichiamolo, i primi cenni di progressive, almeno come terminologia musicale di ricerca e miscelazione di elementi, arrivarono proprio dal jazz e da Stan Kenton che coniò il termine, pensando alle sue forme di jazz sempre meno ortodosse. Quindi non immaginiamo niente, non immaginiamo di ascoltare qualcosa che la nostra mente già prefigura come jazz, entro canoni tipicamente jazz. No, qui si tratta di cose diverse, e credo che nessuno si debba o possa meravigliare di questo fatto. Il linguaggio che scaturisce da questo lungo lavoro, con quasi 130 minuti di musica, è molto particolare lo stile asciutto eppure complicatissimo di Bruford va a coniugarsi con fraseggi che spostano l’ascolto in continuazione, sballottandolo tra parti in qualche modo più easy a parti decisamente intricate e ricche di spunti avanguardistici e poco o niente melodici. L’improvvisazione e la forte tendenza a muoversi su accordi di quattro e cinque suoni, settime e none a profusione, creano dissonanze e approccio non immediato alle sequenze musicali, questo affatica non poco l’ascolto e il rullante di Bruford, secco sui quarti, come trattasse musica rock o musica pop, non fa che accresce quel senso di sbandamento, di obnubilamento generale. Effetto certamente meno presente nel secondo CD, nel quale l’approccio più acustico porta anche verso lidi di jazz più tradizionale, oltre a dimostrare, con chiara spontaneità, quanto questi combo capitanati da Bill Bruford sapessero roteare con flessibilità e con gestualità musicale sempre raffinata e intrigante. Si diceva più complesso e di difficile approccio il primo CD, ma con brani da ricordare ad esempio con “Making a song and dance” e “Bridge of inhibition” tratte dall’album di esordio degli Earthworks ma anche “Pigalle” e “Temple of the winds” tratte invece dal loro terzo album, in rappresentazione di quella complessità stilistica che si diceva prima. Nel secondo volume ci sarebbe maggior scelta tra i brani da citare, specie se il gusto personale va più verso un jazz manieristico, piuttosto che uno jazz avanguardistico e spesso brutale. E allora segnaliamo “Revel without a pause” e la conclusiva “Blues for Little Joe” che spiccano per pulizia di esecuzione e a tratti per genialità delle soluzioni, ma non da meno anche “Dancing on Frith Street” e “A part, and yet apart”, dove eccellono grandi parti dei singoli. Con un po’ di tempo a disposizione, un impegno e concentrazione il disco si apre e si sviluppa in maniera consequenziale, per un jazz che è anche progressive e un progressive che è anche jazz, quindi non per tutti. Ma chi sa cosa intendo, sa anche che di questo doppio CD non dovrà farne a meno.
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Roberto Vanali
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