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FUGATO ORCHESTRA Noé Periferic Records 2010 UNG

Giŕ da un po’ avevamo perso le tracce di questo ambizioso progetto del giovane compositore ungherese Balázs Alpár che, dopo averci fatto tanto sperare con un ottimo debutto, risalente ormai al 2004, č praticamente sparito dalla circolazione, finendo con l’alimentare voci circa un probabile scioglimento della sua Fugato Orchestra… E invece eccoli qui, a sorpresa, con un nuovo fiammante album! L’estrazione dei numerosi musicisti che compongono la Fugato Orchestra (15 elementi con l’ausilio di 7 ospiti) č per lo piů classica anche se il loro modo di suonare č improntato al Progressive Rock. Questo dualismo, che si percepisce perfettamente sia a livello musicale che attraverso l’uso congiunto di strumentazione elettrica ed acustica, ha, nei propositi di Balázs, anche un intento educativo che mira all’ampliamento degli orizzonti dei musicisti stessi ma anche del loro pubblico che potrebbe provenire sia da un retroterra culturale classico che rock. La Fugato Orchestra vuole inoltre dimostrare alle generazioni piů giovani che la musica non č fatta solo di fenomeni da classifica ma che esistono anche aspetti legati all’arte, alla cultura e all’ispirazione profonda. Ecco quindi che tutti questi intenti danno luogo ad una musica colta ma eclettica e persino fruibile in cui si fondono elementi classici, rock ma anche folk e jazz. Al di lŕ del raggiungimento di questi obiettivi, a noi rimane sicuramente tanta buona musica che si dimostra peraltro decisamente all’altezza del giŕ apprezzato “Neander Variations”. L’approccio, a metŕ fra l’orchestrale ed il rock, ricorda senza dubbio i connazionali After Crying che sono sicuramente fra i principali ispiratori del bravo Balázs. A rendere piů solido questo riferimento, č stato incorporato nella line-up dei Fugato proprio il batterista degli After Crying, Zsolt Madai. La fuga, che in ambito musicale indica la rielaborazione contrappuntistica di uno stesso tema musicale da parte di diverse voci strumentali, č ovviamente una tecnica usata dalla band che proprio da questo concetto ha preso il suo nome, ma in realtŕ c’č molto di piů. Prima di tutto troviamo una formula musicale invitante e godibile, soprattutto nelle soluzioni in cui viene messa in risalto la dimensione orchestrale, come nella splendida traccia di apertura, “Pangari”, in cui suoni moderni e scintillanti si fondono a calde fragranze folk ed eleganti suggestioni classiche, o come nella successiva “Hétnyolcad” impreziosita da abbellimenti etnici e divagazioni soft jazz. I riferimenti etnici in particolare sono molto utilizzati e diluiti in maniera sapiente nel corso dell’album senza appesantirne le trame ma donando alle composizioni un tocco di vivacitŕ e colore. Come ben suggerisce il titolo, “Irish Coffee” presenta delle belle contaminazioni celtiche, soprattutto grazie ai ricami di flauto che si stemperano in impasti jazz di classe, guidati da un piano vibrante, in un’alternanza di sensazioni piacevoli. “Nalvorelda” mi ricorda molto, con la delicatezza dei suoi archi fluttuanti, “La Mer” di Debussy ed in questo caso si viene a perdere la dimensione rock in favore di quella cameristica che prevale anche in pezzi come “Világsíró Asszony” in cui troviamo anche una bella voce femminile, quella di Veronika Harcsa (presente anche in “Játsótér”). Altri brani hanno uno spirito piů propriamente chamber rock come la lunga traccia di chiusura, la title track, ed altri ancora, piů spigliati, presentano un diverso grado di contaminazione, come la breve e briosa “Tatiosz”, ma sempre e comunque mantenuta entro limiti di eleganza e gradevolezza. Si tratta senza dubbio di un album molto vario che saprŕ accontentare i palati di molti gettando uno splendido ponte fra musica sinfonica e art rock che ci auguriamo possa riuscire davvero ad unire ascoltatori di sensibilitŕ diversa.


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Jessica Attene

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