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THE FUSION SYNDICATE The fusion syndicate Purple Pyramid Records 2012

Alzi la mano chi non ha mai fatto il giochino immaginario di inventare la band dei propri sogni. Una band che comprende il miglior cantante, il miglior chitarrista, il miglior tastierista, il miglior bassista e il miglior batterista, per non parlare di chi esagera e ci mette dentro anche il miglior flautista, sassofonista, clarinettista, violinista, o qualunque altro strumento vi viene in mente. Sappiate che il giochino lo ha fatto anche Billy Sherwood, con la differenza che lui la band l’ha anche messa in piedi. Certo, dubito che tutti i musicisti che hanno preso parte a questa produzione si siano mai incontrati realmente, ma non è il caso di sottilizzare quando si parla di un album in cui hanno suonato Rick Wakeman, Steve Stevens, Jordan Rudess, Jerry Goodman, Nik Turner, Mel Collins, Billy Cobham, Billy Sheehan, Gavin Harrison, Derek Sherinian, Chester Thompson, Steve Morse, Randy Brecker, John Etheridge, Chad Wakerman, Tony Kaye, Steve Hillage, David Sancious, Steve Morse, Theo Travis e una manciata di altri che conosco meno e che non inserisco per non trasformare la recensione in un elenco di nomi.
“The Fusion Syndicate” è il frutto di questo colossale concentrato di talenti, per il quale bisogna veramente fare i complimenti a Billy Sherwood, che assume ovviamente il fondamentale ruolo guida necessario per assicurare all’album una struttura unitaria e coerente. Oltre ad aver curato la produzione, la registrazione ed il mixing, Billy ha infatti anche scritto tutte le musiche e suonato gli strumenti che costituiscono la struttura di base delle tracce.
Parlare della musica in un lavoro del genere non è semplice. Innanzitutto si corre il rischio di lasciare in secondo piano la qualità delle composizioni e lasciarsi prendere dallo stupore per l’esecuzione; in secondo luogo, per avere la pretesa di dare un giudizio plausibile, è necessario per un momento dimenticarsi chi suona, allo scopo di evitare di sopravvalutare una produzione che ha senz’altro i suoi meriti ma il cui risultato finale ha un valore inevitabilmente inferiore alla somma matematica delle sue parti. Onestamente, non credo che un ascoltatore attento e consapevole possa aspettarsi che una simile riunione di musicisti debba per forza produrre come risultato un capolavoro. “The Fusion Syndicate” rispecchia in pieno tutto ciò. Interamente strumentale, l’album è costituito da sette composizioni di media lunghezza (tutte oltre i sette minuti) costruite su un mood di base rilassato e non troppo complicato, il cui intento è evidentemente quello di fungere da rampa di lancio per gli interventi solisti. Si tratta quindi di fusion in senso stretto, non di jazz-rock. Siamo ben lontani, ad esempio, dal suono alla “Spectrum” o da quello dei Soft Machine, tanto per restare legati ai musicisti presenti, ma più vicino alle produzioni di gente come Spyro Gyra, David Sanborn, Lee Ritenour, Larry Carlton, Dave Grusin e in generale allo stile della storica etichetta GRP. Dominano le tastiere e c’è molta melodia, e la sezione ritmica, seppur notevolmente impreziosita dal drumming spettacolare di alcuni ospiti, rimane legata ad una scansione metronomica pressoché uniforme per tutta la durata dell’album. In questo modo le tracce faticano ad avere una propria identità, pur essendo nel complesso ben costruite ed arrangiate. Durante l’ascolto ci si accorge ben presto che l’interesse principale consiste nel leggere il booklet per scoprire chi esegue di volta in volta le frasi soliste. Queste sono generalmente spettacolari (e ci mancherebbe!) ma ogni tanto paiono appiccicate sullo sfondo, sovrapponendosi con esso ma non integrandosi. Tra i brani spiccano “Stone cold infusion”, nel quale Steve Stevens riesce con la sua chitarra a dare un’impronta più rock della media, contrapposta agli interventi al sassofono di Mel Collins e con Jordan Rudess che invece appare fuori luogo e poco ispirato, “Molecular breakdown”, leggermente meno manieristica, e “At the edge of the middle”, dalla struttura appena più jazzata, con linee melodiche più definite e un bell’assolo di Steve Morse.
“The fusion syndicate” è nel complesso un lavoro discreto, abbastanza piacevole ma a volte anche incolore, senza particolari tratti distintivi o picchi di qualità che ci si dovrebbe aspettare dal cast raccolto per realizzarlo. Chi apprezza questo tipo di fusion lo assimilerà facilmente, ma non mi sento di dire altrettanto per quanto riguarda i progster più tradizionalisti, per i quali dovrebbe essere più allettante il precedente “The prog collective”, realizzato da Sherwood alla stessa maniera, e per il quale, a ben vedere, sarebbe necessario fare le stesse considerazioni relative a “The fusion syndicate”.


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Nicola Sulas

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