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FLICKER How much are you willing to forget? autoprod. 2013 UK

Per una volta, iniziamo parlando dell’aspetto prettamente formale e diciamo subito che all’interno del booklet di due pagine si possono “ammirare” i quattro componenti dei Flicker belli agghindati come da immagine di copertina, probabilmente per far satira sulla parte grottesca della sfarzosa società anglofona, spingendo così a rispondere alla retorica domanda posta nel titolo: “Quanto siete disposti a dimenticare?”. “Ma di che cosa?” verrebbe da rispondere, con un’altra domanda se possibile ancora più retorica. Andando oltre a tutti i sottintesi che stanno alla base di questa pubblicazione, oltre a mancare quello che potrebbe essere un messaggio sociale contenuto nel libretto o nelle note di presentazione, quest’ultimo risulta anche assai avaro di informazioni sulla band stessa (questo per quanto concerne ciò che è giunto in redazione, magari sul mercato ufficiale sarà differente). Così, armandosi di buona volontà si va a scavare online e finalmente si trovano i seguenti nomi: Ellis Mordecai (voce, chitarra e probabilmente master mind del gruppo), Andrew Day (chitarra), Peter Coussens (basso) e Vaughan Abray (batteria). Non è dato sapere chi curi le tastiere, con relativo pianoforte e mellotron (forse un certo Ben Pluck, definito nelle micro note di copertina come il quinto membro della band?), mentre le orchestrazioni sono state affidate a Jonathan Burt Hill e a Tanah Stevens.
Per quanto riguarda il versante dei contenuti sostanziali, invece, l’esordio discografico di questo quartetto inglese è un lavoro in cui, a detta dei diretti interessati, dovrebbero emergere riferimenti ai primi Genesis, ai Pink Floyd ed ai Radiohead. Quest’ultimi sono presenti soprattutto durante la prima parte, in cui l’album denota senza alcun dubbio connotazioni alternative melodiche. Ma oltre a delle superficiali tracce di ballate in simil Pearl Jam-style, sembrerebbe di sentire anche i Green Day più impegnati (chi scrive si prende tutte le responsabilità ed eventuali colpe di quanto imprudentemente dichiarato), quelli scevri dall’annacquato neo-punk adolescenziale degli esordi. Di sicuro, arrivati a questo punto, in tanti avranno già gridato alla bestemmia e saranno passati oltre.
La proposta dei Flicker risulta sicuramente spiazzante, soprattutto per le sue melodie pop forzatamente inquiete e, lo ripetiamo, alternative. Qualcuno ha anche citato i Rush e forse, con un po’di fantasia, si potrebbe anche ricondurli al periodo maggiormente commerciale del famoso trio canadese, tenendo sempre presente che le fasi di Geddy Lee e compagni sono state davvero molteplici e gradualmente differenti.
Gli intermezzi e le code strumentali di pezzi come “My empty head”, Counting time”, “Everywhere face”, “Falling down” e “Breathless” sono intense e trascinano la mente, sfruttando gli schemi floydiani a loro volta ripresi in ogni modo dai Porcupine Tree, a cui occorre affiancare le tanto inquietanti quanto alienanti visioni degli stessi Radiohead. Proprio “Breathless”, poi, aperta da una chitarra spagnoleggiante, si rifà maggiormente ai Genesis che furono, proponendone anche una versione che si fa ascoltare con un certo interesse, prima della solita chiusura Wilsoniana.
Il prodotto è fatto bene, con professionalità, ma oggi come oggi diventa sempre più difficile trovare qualcosa che da questo punto di vista si riveli totalmente deficitario. Da un lato è una fortuna, dall’altro risulta essere un problema, perché diviene assai complicato dare opinioni tra loro differenti, a meno che non si tratti di qualcosa di davvero sopra le righe in senso positivo (o negativo…). In questo caso, per i progsters, non c’è nulla di eccezionale da mettere sotto i denti. Per chi si diletta con atteggiamenti “alternativi” tendenti però decisamente al pop, forse sì. Comunque bravini, soprattutto nelle intenzioni.


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Michele Merenda

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