Home
 
THE FORTY DAYS The colour of change Lizard Records 2017 ITA

Nome inglese, titoli e testi in inglese, crediti e ringraziamenti in inglese. I Forty Days però sono italiani, anche se il loro sound effettivamente non lo è. Volendo semplificare, ci troviamo di fronte ad un classicissimo hard rock progressivo melodico e dalle influenze molto varie e ben identificabili. Emblematica l’iniziale “Looking for a change", un brano che pesca a piene mani dai Pink Floyd, dai Deep Purple e dagli Uriah Heep. C’è un intro di synth e chitarra a cui segue uno svolgimento in mid-tempo guidato da chitarra, organo Hammond e piano elettrico, mentre la voce di Giancarlo Padula (anche tastierista) si lancia verso altezze sconosciute ai comuni mortali. Alcuni stacchi, tra il floreale ed il più strettamente progressivo, insieme agli assoli di chitarra di uno struggente lirismo gilmouriano, chiudono un pezzo veramente bello che in pratica è un viaggio musicale negli anni '70. La strumentale "Uneasy dream" segue la stessa falsariga, buttando nella mischia riferimenti canterburyani e sforzandosi di essere più progressiva, finendo per far sembrare i Forty Days una versione pompata dei Genesis e dei Pink Floyd. Dopo questa accoppiata, che è impossibile non definire vincente, le cose cambiano. Tutti i brani seguenti presentano atmosfere più dilatate e rarefatte, a cominciare da "The garden", con un inizio soffuso, una parte centrale in crescendo e una chiusura che torna sul mood iniziale. La lunga "Homeless" trova nei suoi quasi dieci minuti di durata il tempo per concedersi uno stacco più movimentato ma il tono, costruito su suoni lunghi e malinconici, è simile a quello del brano precedente. “John's pool" si sviluppa su tristi (non in senso negativo!) arpeggi e poi sugli accordi pieni e distorti, con almeno qualche parte più hard a colorare gli arrangiamenti. Stesso mood per “Restart", introdotta dal piano e dalla voce e che ha il pregio di avere qualche sezione con una struttura ritmica più frizzante. Dominano però anche qui i suoni dilatati con i pad di tastiera, c’è qualche chitarra acustica e alcune belle linee suonate dai synth, oltre ai consueti assoli alla Gilmour. I conclusivi otto minuti abbondanti di “Four years in a while" si inseriscono alla perfezione nello schema che domina la seconda parte dall’album.
Lo stacco tra i primi due brani e i seguenti è abbastanza netto e può lasciare un po' spiazzati. Intendiamoci, tutte le tracce sono valide e qualche pezzo dall’andamento più rilassato e malinconico è sempre gradito. Il risultato di questa dicotomia è che all’ascolto si prova una sensazione di attesa che brano dopo brano può far pensare: "ok, ora ci sarà qualcosa di più movimentato a riequilibrare il tutto". Invece no, sino alla fine permane la stessa atmosfera lento-malinconica floydiana e wilsoniana carica di echi post-rock, ben calibrata e costruita, ma dallo sviluppo tutto sommato più schematico e meno sorprendente. Non c'è niente di veramente negativo in tutto questo, soprattutto se consideriamo che parecchie band di successo adottano unicamente questo stile. Alla fine, però, il bisogno di qualcosa che chiuda il cerchio sotto forma di un brano sullo stile di quelli iniziali, si sente. A voler essere pignoli, questo è l'unico difetto di "The colour of change". Per apprezzare il disco nel suo insieme basta lasciarsi cullare dal suono avvolgente della chitarra e delle tastiere, dalle melodie, dagli arrangiamenti curati e da quel sapore retrò che ha sempre il suo fascino.



Bookmark and Share

 

Nicola Sulas

Italian
English