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THE FAR MEADOW Foreign land Bad Elephant Music 2019 UK

C’è ancora vita Prog in terra d’Albione… e il fatto che una band relativamente nuova come questa produca album decisamente ascrivibili al Progressive Rock sinfonico senza eccessivi compromessi non può che essere motivo di soddisfazione. Dicevo che questa band è relativamente nuova, infatti questo in oggetto è il suo terzo album, anche se il primo è stato messo a disposizione unicamente in digitale tramite la propria pagina di Bandcamp, ed i musicisti all’apparenza non sembrano proprio giovanissimi. Della band che nel 2012 ha realizzato quell’album sono rimasti solo due membri, nelle persone del tastierista Eliot Minn e del batterista Paul Bringloe. Successivamente, già dal secondo album, pubblicato nel 2016, la formazione è cambiata aggregando il virtuoso chitarrista Denis Warren, il cui lavoro giunge a donare una marcia in più alla musica del gruppo, il bassista Keith Buckman e la vocalist Marguerita Alexandrou, dalla timbrica chiara, potente e piacevole, nonché abbastanza carismatica e versatile.
Le influenze della band, elencate da essa stessa, annoverano tutti i grandi nomi del Prog, da Yes e Genesis fino ai… Plackband, passando attraverso Flower Kings, Spock’s Beard e così via. Possiamo trovare tutto questo nelle cinque tracce che compongono questo lavoro, a cominciare dall’iniziale “Travelogue”, la più lunga di tutte coi suoi 18 minuti e mezzo. E’ una scelta coraggiosa quella di iniziare con un brano di lungo respiro che infatti, così posto in apertura, è vero che cattura subito l’attenzione ancora fresca dell’ascoltatore ma ammetto che non mi ha più di tanto impressionato di primo acchito. Forse l’azzardo è stato proprio quello di sparare subito le cartucce pesanti di un pezzo che necessita di un riascolto per essere adeguatamente apprezzato e che serve anche a presentare le caratteristiche della band le quali si muovono in bilico tra new Prog ed influenze più classiche, con partiture brillanti e dinamiche, ritmiche a tratti energiche, belle parti di tastiere e una chitarra che mostra (ancora non in tutta la sua potenzialità) un chitarrista che, come si diceva, rappresenta uno dei punti di forza. Non posso peraltro esimermi da notare che la voce di Marguerita a volte ricorda addirittura quella di Geddy Lee.
“Sulis Rise” è il brano successivo e sembra baloccarsi tra influenze mutuate da Yes e Genesis, col cantato e le atmosfere che si fanno più delicati ed eterei, pur mantenendo una deliziosa brillantezza. La successiva “Mud” presenta atmosfere oscure ed inquietanti, la voce si fa vibrante e ci guida attraverso questo breve brano il cui finale è in deciso crescendo emotivo. Gli scenari cupi paiono in parte proseguire con “The Fugitive”, virando tuttavia su paesaggi sonori più contigui al jazz, con un bell’assolo di chitarra, ben supportato dal basso, che ne caratterizza la parte centrale.
In coda all’album troviamo la title-track, di 11 minuti, in cui le influenze genesisiane tornano a farsi sentire in avvio ma il brano si sviluppa poi in crescendo, evidenziando ancora alcune sonorità jazz, con notevoli e prolungate parti strumentali in cui assoli di chitarra e di tastiere si susseguono piacevolmente, inframezzate da brevi parti cantate che stavolta sono un po’ sottotraccia; il brano sarebbe potuto benissimo essere in realtà strumentale.
L’album finisce e, benché non brevissimo, scorre via velocemente. Si tratta di un bel dischetto, decisamente piacevole nelle sue varie sfaccettature e solo parzialmente debitore delle varie influenze musicali della band. Lo considero decisamente alla pari di lavori di artisti connazionali più blasonati come i Magenta, sia dal punto di vista musicale che della produzione.



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Alberto Nucci

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