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FRAGILE Golden fragments Force Ten Productions 2020 UK/GER

Dopo oltre vent’anni come una delle più apprezzate tribute-band europee degli Yes e con numerosi cambi di line-up, i Fragile “saltano il fosso” e decidono di pubblicare il loro primo album di musica inedita, “Golden fragments”, doverosamente ispirata (e non poteva essere altrimenti) allo storico complesso britannico. Il gruppo attualmente è composto da Claire Hamill alla voce (con una ricca carriera alle spalle come solista, oltre ad avere collaborato con Jon Anderson & Vangelis e Steve Howe tanto per rimanere in ambito Yes…), Oliver Day alle chitarre, Russ Wilson alla batteria e Max Hunt al basso, tastiere, chitarra e seconda voce. Special guest in un paio di brani, alla voce, Clive Bayley dei Mabel Greer’s Toyshop, ex gruppo di Chris Squire e Peter Banks, a dare ulteriore “peso” alla produzione. Se aggiungiamo che dell’artwork si è occupato Steven Mayerson, che sembra conoscere piuttosto bene l’arte di Roger Dean, ecco che il cerchio magicamente si chiude, con piena soddisfazione.
Due considerazioni prima di addentrarci nell’ascolto dell’album. Dapprima la scelta di una voce femminile come quella di Claire Hamill si dimostra vincente e permette di evitare paragoni col “divino” Jon Anderson. In secondo luogo, l’approccio maniacale, ma ricco di personalità nell’interpretare quel suono che tanto amano impedisce di considerarli dei semplici cloni. Insomma, imbevuti di “Yessound” ricostruito secondo la sensibilità moderna. Certo il basso à la Squire, la chitarra che fa molto Howe sono lì, presenze tangibili. Ma i Fragile sono anche altro. Come non lasciarsi conquistare dalle atmosfere di “When are wars won?/Surely all I need” nella quale i “maestri” sono rivisitati ed attualizzati in modo mirabile e senza forzature? Le pause acustiche, il basso possente, le trame composite, i “gocciolii” di note evanescenti in lontananza, la voce che invita a fluttuare leggeri sopra prati smeraldini…
L’attenzione rimane desta con “Blessed by the sun/Hey You and I and” che cresce piano piano grazie all’ottima performance di Hamill ed alla “musicalità” della band che sforna impianti melodici sempre di notevole fattura. L’effervescente finale, poi, è da applausi. Contorsioni ritmiche pregevoli alimentano “Five senses” in cui, al microfono, si alternano Hunt e la Hamill anche se nel complesso il pezzo è più debole dei precedenti. “Heaven’s core”, con come vocalist anche Clive Bayley, veleggia tra cori quasi impalpabili, ritmica sempre al top e una strizzata d’occhio al new prog più sbarazzino. Il finale è tutto di Day ed Hunt. Segue un breve saggio di chitarra acustica, “Open space” che anticipa “Time to dream/Now we are sunlight” dalle atmosfere incorporee, quasi new age per buona parte dei sei minuti e più di durata.
Con “Old worlds and kingdoms/Too late in the day” ci congediamo da “Golden fragments”. Si tratta di un altro brano che dimostra come si possa crescere con un modello, farlo proprio e produrre, coerentemente, altro. Introduzione affidata al pianoforte (avete detto “Awaken?” Ve lo concedo), poi il proscenio è preso dalla Hamill, su una corposa ritmica, con qualche ricamo di Day a frapporsi alle tastiere di Hunt sempre incisive. Segue una fase di quiete, simil-etnica, con la voce della Hamill a tessere delicate trame prima che una esplosione di colori sfavillanti ci prenda per mano fino alla conclusione, un po’ repentina invero.
Ci rimane un album molto bello, adatto ovviamente a tutti i fans degli Yes che vorranno rivivere, seppur parzialmente, la magica epopea di una delle band più importanti del prog rock internazionale degli ultimi cinquant’anni. Se poi gli Yes attuali (di cui molti dubitano dell’esistenza, visto l’assenza di membri fondatori) vorranno “rispondere” con un nuovo lavoro (magari migliore dell’ultimo “Heaven & Earth”… e non ci vorrebbe poi molto…) ne saremmo tra i primi ad esserne felici.



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Valentino Butti

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