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JEFF GREEN Jessica autoprod. 2008 USA

Cresciuto sotto il caldo sole della California, con la passione speciale per il Southern Rock ed il Progressive, e trasferitosi suggestivamente nella verde Irlanda, il chitarrista Jeff Green arriva, dopo una lunga carriera di musicista e di insegnante di chitarra, alla realizzazione di quest’opera solista. Questo album ha avuto una gestazione molto lunga e viene finalmente alla luce come frutto di un dolore lontano nel tempo, la morte della figlia, avvenuta il 31 Maggio del 1996, il giorno stesso della sua nascita. Questa lunga elaborazione è il risultato di una sofferenza durevole nel tempo ma soprattutto è un atto d’amore. Mi preme sottolinearlo per superare alcune barriere della retorica verso cui rischierei di abbattermi e per fugare qualche piccolo pregiudizio che inevitabilmente potrebbe far pensare ad un album nato da una storia personale lacrimevole di cui si fa sfoggio per accattivarsi le simpatie degli ascoltatori più sensibili. Niente di tutto ciò: la musica di questo album è incredibilmente serena, semplice e limpida nel suo disegno; nessuna tragedia quindi ma un fiore luminoso che sboccia su un terreno che è stato scosso profondamente da qualche calamità naturale. Niente retorica ma il tenero ricordo di un amore lontano nel tempo ma sempre acceso nel cuore dell’artista. Nessuno sfoggio della propria condizione infelice ma il semplice tentativo di condividere col prossimo qualcosa che ci sta a cuore. Tutto qui. Considerate poi che il ricavato di questo album è destinato alla raccolta dei fondi per costruire un ambiente nel reparto di maternità del Southend General Hospital che possa accogliere i genitori che avranno lo stesso dispiacere di Jeff, in maniera tale che il loro dolore possa essere vissuto in maniera riservata.
Ma passiamo alla cosa che ci interessa di più e cioè alla musica. Prima di tutto osserviamo che Jeff ha reclutato una serie di validi artisti per dare forma alle proprie idee musicali: oltre alla sua chitarra, troviamo infatti Mike Stobbie (Pallas) alle tastiere, Pete Riley (John Wetton, Keith Emerson Band) alla batteria e Phil Hilborne alla chitarra. Il supporto di una vera e propria band è notevolmente significativo nello sviluppo di un’opera solista e Jeff non ha lasciato nulla al caso, sebbene la stesura del suo album sia lineare e priva di barocchismi. Lo stile ci porta globalmente verso una delicata forma di new prog, con qualche eco dei Pink Floyd più melodici, soprattutto per quel che riguarda la limpidissima chitarra dai riflessi Gilmouriani che possiamo percepire subito a partire dalla la prima traccia, “For The Future”. Vi è poi un’impronta più vicina al rock melodico che rende la musica molto solida e che mette in un certo senso un po’ di distanza rispetto alle classiche produzioni britanniche del genere. Nella stessa composizione iniziamo inoltre ad apprezzare l’opera tastieristica di Stobbie, discreta ed assolutamente non invadente, ma molto puntuale nei suoi interventi. Non sono molti i pezzi cantati, ma uno di questi, “On the Night”, è secondo me una delle punte di questo disco. L’incipit ha qualcosa di spirituale, con tanto di Mellotron, ma il pezzo acquista subito vigore, grazie alla potenza delle chitarre che viene comunque addolcita dalle tastiere che si muovono sullo sfondo per poi emergere nei punti di maggiore enfasi. Tutto ciò ci riporta nel cuore degli anni Novanta con un piacevole deja-vu che ha il sapore di Pendragon, Jadis e Landmarq. Fra gli strumentali “Willing The Clouds Away” ha qualcosa di vagamente Cameliano e presenta una progressivo arricchimento dei suoi contenuti musicali che non stagnano nella ripetizione di pochi moduli ma che trovano uno sviluppo consequenziale e piacevole. Peccato per il finale in dissolvenza che si sfuma però fra il suono delle onde del mare legandosi alla successiva “Pride”. Segnalo inoltre “Jessie’s Theme”, dalle ampie melodie che scorrono su una base ritmica solida ma estremamente regolare, anch’esso pieno di similitudini che lo legano al gruppo di Latimer e anche a quello di Gilmour. Il ruolo della chitarra è per forza di cose dominante, anche se è fatto in preponderanza di fraseggi puliti, arpeggi, a volte anche acustici, e non è certamente costruito con muri di riff. Proprio gli elementi chitarristici sono quelli di maggior pregio, soprattutto quando l’artista si prende maggiori libertà esecutive con i suoi assoli, comunque mai debordanti ma sempre ben inseriti nel contesto. All’occorrenza questo strumento lascia spazio a momenti meditativi ed orchestrazioni, in maniera tale che a colpire sia sempre l’atmosfera generale del pezzo e non i singoli particolari sonori. La parte ritmica è quella dotata di meno estro e si limita per lo più ad un ruolo di sostegno e di base, svolto comunque in maniera impeccabile. Si evidenziano un po’ rispetto alle altre tracce, per la presenza di alcuni delicati elementi folk di ispirazione irlandese (che chiaramente si riferiscono ad alcuni aspetti biografici dell’artista), le ultime due tracce e cioè “Prittlewell Chase”, fatta di gentili arpeggi con un bel flauto sognante, e l’elettrica “Live Forever”, in cui il flauto fa qui soltanto capolino e dotata di un finale in crescendo speso in tecnici assoli di chitarra. Non si può fare a meno di notare la pulizia dei suoni che appaiono netti, privi di riverberi e ben intellegibili, la precisione nell’esecuzione e infine la nitidezza della registrazione. A volte i pezzi perdono un po’ di compattezza ma questo perché i vari elementi sonori sono totalmente messi a nudo da una produzione senza fronzoli, che li fa apparire come sono in effetti senza l’aiuto di superflui colpi di cipria e belletto. Le idee non sono assolutamente originali ma appaiono sincere e come tali sono degne di apprezzamento. L’album è in effetti molto semplice ed essenziale, fatto questo che lo potrebbe ingiustamente portare ad essere sottovalutato da parte di chi è alla ricerca di cose più impegnative ed eclettiche, ma si tratta in fin dei conti di un lavoro ben fatto, non pretenzioso e piacevole da ascoltare.


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Jessica Attene

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