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GYGAFO Legend of the kingfisher Holyground 1989 (Holyground 2003) UK

Get Your Gear And F*** Off!” Quanto si sbagliava la persona decisamente poco lungimirante che invitò questa band ad andarsene e che involontariamente si è ritrovata legata in maniera indelebile alla storia del gruppo che, con spirito goliardico, ha pensato bene di trarre da qui l’acronimo che costituisce il suo nome! L’album fu registrato fra il 1972 ed il 1973 nell’arco di parecchie serate a Wakefield, negli studi un po’ arrangiati della Holyground Enterprises, una piccola etichetta discografica che vanta il primato di essere stata la prima indipendente in terra inglese. Si dice che il gruppo fosse stato ricompensato del proprio lavoro con dodici bottiglie di vino, sei rosse e sei bianche, ma purtroppo tutto si fermò lì. Nel 1975 la Holyground, una realtà davvero troppo piccola e gestita soltanto da due persone, entrambe impegnate in altri lavori a tempo pieno, cessò la propria attività e dei Gygafo non si seppe più nulla. Ma nel 1988 ci sono buone novità: Mike Levon, uno dei fondatori dell’etichetta (che tra l’altro suona la chitarra in questo disco), ricomincia a stampare le vecchie cose ed è così che nel 1989 “Legend of the Kingfisher” vede la finalmente la luce con una tiratura contenuta (come nella migliore tradizione della Holyground che ha sempre fatto le cose in piccolo) di 427 copie (così viene indicato chiaramente nel sito dell’etichetta). Tanto basta per dare vita alla leggenda: negli ambienti underground si sente molto parlare di questa band, persino in Italia, dove si vocifera siano stati stampati dei bootleg (il nome della band viene tra l’altro segnalato in una classifica stilata dalla rivista Rockerilla nel 1990). La registrazione ha un sapore decisamente artigianale ma il sound ha un groove irresistibile e le idee sono fresche e brillanti. Le sei canzoni che compongono l’opera originale sono intrise di psichedelia e hanno un sentore di fine anni Sessanta, ma in questo agglomerato fumoso di colori iridescenti, fra impasti hard-blues e ruvidi tappeti d’organo (Farfisa?), si aprono sul più bello scenari sinfonici a sorpresa che rendono questo album decisamente insolito nel suo insieme. Il modo di suonare la chitarra di Charlie Speed ha un’attitudine decisamente progressiva nella costruzione delle frasi melodiche: ascoltatela per esempio in “A Room with a View” mentre si intreccia con il flauto ed il piano, creando suggestioni classicheggianti. Il flauto di Jon Atkinson, che riveste anche il ruolo di cantante solista, contribuisce inoltre a dare delle colorazioni folkish a questo insieme musicale di per sé particolare, come pure gli sporadici interventi del mandolino. Fra le perle di questo album c’è sicuramente la mini-suite di dodici minuti che chiudeva il lato A composta di tre episodi distinti (“Waiting for the rain”, Entering Winds of Long Ago” e “Season’s Weather ”). I suoni appaiono sbiaditi ed oscuri, le parti vocali a volte forse un po’ traballanti ma il fascino di questa musica che appare lontana nel tempo ma che non si riesce a collocare precisamente in un periodo storico esatto è indiscutibile. A più riprese vengono in mente i Jefferson Airplane, i Traffic, i primi Floyd ma si percepiscono anche echi di Spring e Indian Summer (anche se con una componente tastieristica meno rigogliosa). Fra le tracce vengono intercalate a fare da raccordo registrazioni ambientali con canti di uccelli o con la pioggia cadente, a ricordare forse il tema al quale l’album è dedicato e cioè la leggenda del martin pescatore, tirata fuori attraverso un gioco di parole fra “kingfisher” e “fisher king”, quest’ultimo oggetto di un racconto del ciclo di re Artù. Un prima ristampa legittima su CD (1000 esemplari in totale), contenente due tracce aggiuntive risalenti al 1973-1974, è stata realizzata nel 1992 (HBG 122/2). Questa nuova edizione contiene, oltre a questi pezzi appena citati, anche un ulteriore canzone dei Gygafo, “Retrospect” e un brano extra degli Ark, band contemporanea ai Gygafo ma che a parte questo non ha niente in comune con loro. Il materiale aggiuntivo è in linea con l’album per qualità di registrazione (approssimativa) e contenuto musicale, anche se ovviamente i pezzi più belli sono quelli che sono stati destinati all’opera originale. Riguardo agli Ark, la registrazione è ancora più scadente e mina decisamente l’interesse ed il piacere di ascolto. Poco importa: visto che esiste una ristampa legittima e che si trova anche senza fare i salti mortali, consiglio l’ascolto di questo album, soprattutto se vi piacciono le cose inglesi vecchio stile, piene di polvere ma anche di colori intriganti.


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Jessica Attene

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