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GUTBUCKET |
Flock |
Cuneiform Records |
2011 |
USA |
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Quartetto attivissimo, non solo sul piano concertistico e discografico (sono giunti al loro quinto album), ma anche con clinic e seminari tenuti in scuole e università statunitensi, i Gutbucket ci propongono un nuovo cd dal quale emerge tutta la loro enfasi che li spinge nel campo del jazz-rock progressivo d’avanguardia odierno. A due anni di distanza da “A modest proposal”, Ty Citerman (chitarre), Adam D Gold (batteria e percussioni), Eric Rockwin (basso) e Ken Thompson (fiati) hanno voglia di stupirci ancora una volta con la loro maestria strumentale, proponendoci in “Flock” un’ora di musica brillante che forse riesce a sviluppare ancora meglio le idee encomiabili già presentate nel suo predecessore. Bastano pochi secondi della traccia di apertura “Fuck you and your hipster tie” a chiarire come stanno le cose: sax che urla, stacchi continui, ritmi imprevedibili, chitarra elettrica a rifinire il tutto in un saliscendi schizoide che sa un po’ di King Crimson (periodo 1971-72), un po’, per rimanere in tempi più recenti, di Akineton Retard. I brani non si protraggono mai troppo per le lunghe, mostrandosi agili e snelli, caratteristiche che non rendono affatto pesante l’ascolto, nonostante il disco sia interamente strumentale e sia orientato verso direzioni sonore non proprio accessibili a tutti. Eppure, una certa attitudine vicina a quei Crimson, che vien fuori spesso e volentieri durante l’ascolto, potrebbe far avvicinare a questa band anche i meno avvezzi al jazz-rock. Virtuosismi, acrobazie, dissonanze e sperimentazione dominano nella frenetica “d0g help us”; maestoso l’andamento in crescendo di “Murakami”, inframmezzato da pause d’atmosfera un po’ minacciose; oserei dire addirittura accattivante la spinta frizzante e un po’ più diretta di “Tryst ‘n shout”. Tutti i brani proposti sono comunque di alta qualità, anche se una menzione particolare va forse fatta per gli ultimi tre che insieme vanno a formare la “Born again atheist suite”: uno spettacolare excursus sonoro che regala emozioni continue, che invade e unisce i mondi del jazz e del rock, cercando di non arrivare mai al manierismo e contemporaneamente di mantenere vivi quella voglia di ricerca, quello spirito di ribellione e quella comunicatività che erano caratteristiche fondamentali dei momenti d’oro di queste scene musicali. Potremmo fare altri paragoni e parlare dell’influenza di artisti del calibro di Frank Zappa, di Weather Report, del sempre basilare Davis elettrico o anche di certi legami con il mondo di Canterbury, ma faremmo torto a dei musicisti che, oltre a mostrare una certa personalità, tendono a guardare avanti piuttosto che indietro. Impressionanti da un punto di vista tecnico, i Gutbucket non fanno puro sfoggio di esibizionismo, dimostrandosi capaci di realizzare composizioni esemplari nell’ambito in cui si muovono e facendo emergere anche una certa vena ironica con il buffo artwork e i bizzarri e provocatori titoli dei brani.
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Peppe Di Spirito
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