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SIMONA GRETCHEN Post-Krieg Blinde Proteus 2013 ITA

Considerato il sito che ospita questa recensione, la prima cosa da dire e che Post-Krieg non è un album dagli intenti e dagli stilemi progressive. Eppure c’è qualcosa di così profondamente rimescolato, qualcosa di così sapientemente rinnovatore e qualcosa di istintivamente inquietante, da farne un disco imparentato con certo progressive oscuro e sotterraneo. Involontariamente progressive, ma senza esserlo davvero. Un po’ come accadde con i Devil Doll di Mr. Doctor.
Simona Gretchen è una giovane di Faenza il cui vero cognome è Darchini. Non deve minimamente stupire che una ragazza classe 1987 non si dedichi in maniera diretta e consapevole al progressive tout-court e che peschi invece, e in maniera decisa, in tutte le forme di modernità post-qualsiasicosa che la musica mette a disposizione.
La miscela è quindi quella degli opposti, dualità in eterna battaglia, il dentro e il fuori, il nuovo e il vecchio, il sussurrato e l’urlato, l’immenso e il minimo, l’immediato e il complesso e, come ci dimostra la copertina che ritrae un pube femminile ricoperto da piume di pavone maschio, il lui e la lei. In effetti non parliamo di un cd full length canonico, ma di una sorta di mini cd della durata complessiva di circa 27 minuti,di cui la seconda parte è coperta da una mini suite di quasi 14 minuti “Everted”, suddivisa in tre movimenti distinti.
Ma quindi cosa ascoltiamo? Post punk, post rock, post wave, post core, post pop, post dada, post alternative, post garage, trasversalità totale e intrigante, forme lontane da ogni cosa avvenuta un minuto prima, eppure coerenti e indiscutibilmente serie.
Molto seri e interessanti anche i testi, spesso brevi e reiterati più volte, ma contornati da frasi che restano impresse come sentenze: “e scandisce le sillabe della sua storia, fino quasi a crederci, ad averne memoria.” Ripete come un’eco nella prima parte di “Everted”.
C’è qualcosa di strano e di estraneo in questo lavoro, anomalie morali e immorali che fanno ricordare i “Freaks” di Tod Browning. In un mondo dove l’anomalia è la norma anche il freak diventa normale.
Tornando alla musica mi viene da ricordare, non tanto per affinità musicale, quanto per andamento alternativo, il Battiato dei primi anni ‘70. Degli otto brevi brani viene da citare la titletrack con le sue chitarre impure e distorte, quasi frippiane. “Enoch” uno strumentale marziale, deciso nel suo incidere governato dal violino e dal piano, avvinghiati e arrotolati nella ritmicità del tempo del valzer. Le tre parti di “Everted”, prima ipnotica, sostenuta da voci grezze, provenienti da dimensioni estranee, come urla disperate, ma troppo lontane per prenderne coscienza. Una seconda parte sviluppata su un bolero moderno aggressivo e malinconico e una terza parte dall’intro poliritmico, forse il momento più candidamente affine al progressive, specie nel suo finale strumentale, dove la chitarra lavora sotterranea come fosse un flauto. Entrare nel vivo di questo disco è come entrare nella pancia del mostro e rovistare nelle sue viscere come aruspici greci. Se proprio sentissimo il bisogno di provare qualcosa che non sia progressive, ma che, incidentalmente, ci appartenesse proprio come se lo fosse, ecco, questo disco farebbe al caso.


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Roberto Vanali

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