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GENS DE LA LUNE |
Epitaphe |
Arts En Avant |
2014 |
FRA |
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Una delle cose che sarebbe bene ricordare in questa recensione è che i Gens De La Lune sono, dal 2010, la nuova band di Francis Décamps, storico tastierista nonché co-fondatore dei grandissimi Ange. Ecco, rammentiamolo subito ai distratti e togliamoci questo pensiero, anche perché sono certa che il gruppo stesso, giunto alla sua terza fatica discografica, sarà ormai stanco di questa zavorra, anche se, diciamolo, è una zavorra di tutto rispetto. Gli Ange c’entrano sempre e la loro eredità è tangibile ma i Gens De La Lune possono a buon diritto reclamare la loro sovranità, soprattutto con un’opera così impegnativa, maestosa e complessa come quella che mi appresto a presentarvi. Si tratta di un’opera rock per la precisione, come il gruppo stesso ci tiene a puntualizzare, ma per me è qualcosa di più. Se penso a un’opera rock infatti mi vengono in mente tanti personaggi che spostano la polarità della canzone sulla loro performance vocale e che dal vivo interagiscono sul palco fra di loro, spesso rubando spazio alla musica. Al centro di “Epitaphe” invece c’è un unico personaggio, Léon Deubel, che si fregia dell’onore di essere considerato l’ultimo dei poeti maledetti e Francis Décamps ne ha seguito le orme da vicino, scovando brandelli e testimonianze della sua vita terrena nel suo epistolario e nelle sue opere poetiche, ricorrendo persino all’aiuto della biblioteca municipale di Belfort, città che gli diede i natali. E’ stato un po’ come se i due artisti si fossero conosciuti davvero e fossero entrati in profonda sintonia: la musica scritta da Décamps segue la vita tormentata di questo personaggio così complesso, riproducendone magnificamente gli sbalzi d’umore che potevano trascinarlo repentinamente dalla pura euforia alle tenebre più nere, fino alla morte che il poeta si procurò, dopo aver dato alle fiamme tutti i suoi manoscritti, gettandosi nella Marna. In questo modo Deubel volle prendere in mano le redini del proprio destino, come splendidamente descritto nella title track che chiude questo doppio album e che riporta in coda l’epitaffio che il poeta stesso scrisse per sé. La musica dà vita ai dodici brani del doppio album e fa da commento alle lettere e alle poesie di Deubel, che vengono cantate, a volte rielaborate attraverso le visioni di Décamps o recitate, in un insieme coerente ma multiforme. I versi poetici sono incastonati nelle canzoni e spesso sono volti in prosa a formarne i testi, in bellissimi collage asimmetrici, imbastiti con cura e singolarità. Il book che correda l’album, che ha il formato di un libro tascabile, contiene poi delle graziose illustrazioni che entrano a far parte di un insieme artistico fatto di musica, poesia e teatro. Si può dire che l’album sia un vero e proprio banco di prova per la splendida voce di Jean Philippe Suzan che sfrutta qui tutto il suo impeto teatrale, vestendo perfettamente i panni di un personaggio difficile ed affascinante. Suzan riesce a volare sull’onda delle emozioni, trascinando con sé l’ascoltatore, sa essere elettrizzante, affabile, drammatico, istrionico, emozionante e sfrutta al meglio la sua voce potente, agile e persuasiva. Ascoltatelo ad esempio nel momento topico dell’album, la già citata “Epitaphe”, mentre mette in scena gli ultimi istanti della vita di Deubel. Dapprima è cupo, malinconico e la musica viene in suo aiuto amplificandone il pathos. Essa è dapprima classicheggiante, con uno splendido violino barocco e drammatico in apertura, ora è profondamente sinfonica e dolce, con una chitarra limpida che ricorda i Camel di “Harbour of Tears”. Quando poi infine diviene grandiosa ed inafferrabile, rievocando gli Ange dei bei tempi, anche la voce sale di registro facendosi inebriante. Quando Deubel infine si tuffa in acqua sembra quasi che Suzan esali con lui l’ultimo respiro. In questa sua performance egli appare sempre sincero, naturale e nient’affatto artificioso, non solo nei momenti più carichi di pathos ma anche in quelli grotteschi, come nella carnevalesca “Triste Mardi Gras” dove intavola un colorato dialogo con la nonna, o ancora in quelli romantici, come nella splendida ballad “Cueillir le secrets de l’Aube” che evoca sentimenti di dolce solitudine amplificati dai gentili arpeggi di chitarra Genesisiani e dalla fisarmonica. Recitando i versi di Deubel in “Quelques Détresses” la sua voce arriva persino a tremare, quasi farneticante e come in preda ad allucinazioni. Sullo sfondo c’è la pioggia e si odono effetti sonori poco accoglienti e tutto sembra immerso in una buia caligine appiccicosa mal rischiarata da fioche lampade ad olio. Ma come ho anticipato gli umori cambiano repentinamente e sul finale di questo brano, che unisce come sempre musica e poesia, tutto sembra rasserenarsi e riempirsi di speranza, in un ritrovato clima sinfonico illuminato da sonorità di Mellotron. Un aspetto molto importante da considerare riguarda poi un diffuso arricchimento dei colori tastieristici che, nelle opere pregresse, erano più monocromatici. Sembra che le tastiere di Décamps siano rinate a nuova vita, riportando dal passato alcuni dei bei momenti che animavano le opere degli Ange, con quei suoni così particolari ed inconfondibili. A potenziare l’effetto sinfonico ci sono poi gli abbellimenti classicheggianti forniti dal violino, che entra spesso nella struttura dei brani e si insinua delicatamente fra i versi poetici. Vi sono moltissimi momenti genesisiani, percepibili fin da subito, con la maestosa traccia di apertura, “Brillant Embryon” che gode di una sinfonicità ariosa e poetica. Anche nella ballad “Mon axiome blue indigo” le rifiniture tastieristiche sono superbe, con sonorità di Mellotron morbide che contrastano con lo sfondo tenebroso e minimale che accompagna la poesia di Deubel “Le tombeau du poéte” recitata sul finale. Le tastiere sono ancora grandi protagoniste dello strumentale “Le baume érotique”, suggestivo e coinvolgente, e sbocciano letteralmente in “Les arts”, una traccia sgargiante, con gli archi che si mescolano ai suoni vintage. Questa volta i versi poetici sono recitati su una sequenza musicale che è un fiume in piena, con richiami vistosi a Genesis e Yes. Cascate di tastiere inondano anche “Du haut de ma citadelle”, frizzante e melodrammatica. Insomma i momenti da ricordare sono proprio tanti, con cadute minime e impercettibili che in un contesto così ampio finiamo subito per dimenticare. Volendone citare uno chiamerei in causa “Où sont les routes de mes déroutes”, forse il brano più debole e meno fluido, anche per colpa di qualche verso recitato in un italiano dalla pronuncia molto strana (non la solita con accento francese che poi piace anche tanto dalle nostre parti). Non ho speso molte parole sulla sezione ritmica, anch’essa vivace e teatrale, o sulla chitarra di Damien Chopard, pulita e puntuale nel disegnare melodie ed elettrica al punto giusto quando serve un tocco in più di energia. Tutto sarebbe comunque funzionale a sottolineare il fatto che i Gens De La Lune si sono davvero superati con quest’opera magnifica e complessa da assimilare e gustare a poco a poco, libretto alla mano. Per cui, senza andare troppo oltre, passo al consiglio conclusivo di rito che, l’avrete capito se non siete troppo duri, è quello di procurarsi questo doppio CD che, sono sicura, vi terrà impegnati per un bel pezzo.
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Jessica Attene
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