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GATTO MARTE |
Madame Penguin |
autoprod. |
2014 |
ITA |
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Sono uno dei gruppi più longevi e prolifici tra quelli del prog italiano nati negli anni ’90. Sono anche tra i più interessanti ed originali. Eppure non è che trovino gli spazi che meriterebbero. Sarà forse che è difficile inquadrare con precisione la loro musica ed anche la definizione di “After Crying italiani” che spuntava spesso quando si parlava dei loro esordi appare oggi limitativa. Legati alla musica classica, ma ben distanti dal prog sinfonico, i Gatto Marte continuano per la loro strada attraverso un personalissimo chamber rock ben distante dalle atmosfere oscure degli Univers Zero e che, anzi, è capace di essere solare, allegro e spensierato, di mescolarsi con il folk, di aprirsi verso la melodia mediterranea e quella mitteleuropea e di spingersi anche verso territori jazzistici. E’ una proposta dalle atmosfere incantevoli, che può sembrare una colonna sonora e mostrare una forte vena canzonatoria e buffa, che deriva chiaramente da percorsi accademici, ma che pure è pronta a sferzate verso il rock più ricercato. Con “Madame Penguin”, uscito nel 2014, i Gatto Marte giungono al loro decimo album e si presentano in una formazione di sei elementi, con Nino Cotone al violino, John Sheperd alle chitarre, Maximilian Brooks al piano, Ben Newton alle tastiere e alla fisarmonica, Pietro Lusvardi al contrabbasso e Mark Knight alla batteria. Il nuovo album dura circa trentasette minuti ed è aperto da “The bells after the life’s chase to nowhere”, che mostra subito l’attitudine del gruppo a creare sapientemente un mix di musica da camera e rock, con la batteria a dettare tempi in continuo cambiamento, mentre pianoforte e violino si alternano e si intrecciano con una chitarra elettrica sanguigna. Discorso simile per “Sinfonia n° 3 (La Giudecca)” e “Sinfonia n° 4 (La Turca)”, che proseguono in questa direzione, mostrando anche quella leggerezza che i Gatto Marte presentano sempre nei loro dischi. Sorprendenti, invece, i toni vagamente oscuri e conturbanti che caratterizzano “Azatoth”. Il pezzo forte è sicuramente rappresentato dalla title-track, in pratica una suite di oltre venti minuti suddivisa in sei tracce. Ci si può trovare di tutto, da quel chambre rock di cui parlavamo prima, guidato dal violino e piano, a inattese sferzate crimsoniane, da una sorta di musica totale che rievoca gli Isildurs Bane di “Mind vol. 2” a passaggi quasi minimalisti, dai soliti spunti irriverenti e orecchiabili a momenti più misteriosi. Le trame sonore sono incredibili: gli strumenti classici si vanno ad unire alla chitarra elettrica e alla batteria formando un sound che risulta comunque omogeneo, a tratti irruente e in altri frangenti più delicato e pacato. I musicisti mostrano una tecnica incredibile che non si palesa con acrobazie strumentali alle quali ci hanno abituato i virtuosi che suonano a mille all’ora e sfruttano i tempi dispari, ma piuttosto attraverso composizioni finemente articolate, che denotano una preparazione fuori dal comune. “Madame Penguin” non è solo l’ennesima conferma della grandezza dei Gatto Marte, ma anche una delle loro opere più riuscite. Ed è bene ancora ricordare che stiamo parlando di un gruppo magnifico, che vanta una discografia ricca e di qualità media elevatissima che lo rende patrimonio importantissimo, purtroppo non molto seguito, del rock progressivo tricolore. Sarebbe ora che gli si dedicassero molte più pagine sui siti e sui magazine dedicati al prog.
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Peppe Di Spirito
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