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Un po’ tutte le recensioni dedicate ai Goad si aprono ricordando che la band fiorentina è stata fondata dai fratelli Gianni e Maurilio Rossi sul finire degli anni ’70, rimarcandone le influenze prog (soprattutto quello dalle tematiche più oscure) e hard rock. In pochi però si ricordano di aggiungere che la carriera discografica del gruppo toscano ha avuto inizio addirittura nel 1983, pubblicando sul mercato statunitense “Creatures” per la Northcott Production, la quale avrebbe dato alle stampe anche una raccolta di cover. La discografia dei Goad è quindi molto più ampia e complessa di quanto già si potrebbe cogliere ad un primo sguardo, tra album mai pubblicati, partecipazioni a tributi di colleghi importanti come Moody Blues e King Crimson, strane colonne sonore e lavori ufficiali dedicati esplicitamente ad inquietanti scrittori tipo Edgar Allam Poe (1994) e H.P. Lovecraft (2006). L’eccellente “Masquered”, poi, nel 2011 voleva essere – tra le altre cose – un omaggio ad entrambi gli autori poco sopra citati. Dei Goad, in effetti, si parla poco e si sa ancora meno. Un fatto strano, che forse va ricercato nella proposta stessa assolutamente inusuale, i cui schemi affatto convenzionali non contribuiscono a creare un’eco mediatica che abbia un minimo di spessore. Di certo, la musica dei fratelli Rossi tende già in sé a non “echeggiare”, persa com’è tra sentieri cupi, popolati da alberi spettrali e in cui il suono si smorza per non uscirne mai più, con fiumi nebbiosi dai quali sembra a volte di scorgere qualche strano volto. È in pratica la coreografia di quest’ultimo “The silent moonchild”, guarda caso pubblicato negli ultimi giorni (morenti) del 2015, basato su una novella di stampo gotico molto suggestiva e poetica composta dallo stesso Maurilio, poi tradotta in inglese, francese, tedesco e spagnolo. Un concept vero e proprio fra l'horror, immagini oniriche ed esperienze metafisiche, che però – ovviamente! – sfugge ai consueti parametri, in quanto viene quasi introdotto da alcuni brani che certo non risplendono per ottimismo, facendo comunque intravedere un desiderio di Luce tenuto a forza celato dalle tenebre della delusione; è il caso dell’iniziale “Except Hate”, che nel suo significato più profondo parla di Dio, il quale si lamenta di Lucifero che non ricambia il suo Amore. Una partenza dal grande effetto, tra fiati, organo, violino ed un andamento tipico del dark-sound italiano. Viene meno stavolta l’influenza degli Atomic Rooster, accentuando quello profondamente oscuro di connazionali tipo gli Jacula, ma anche la propensione verso la musica classica che avvicina all’inquietante realtà italo-slovena Devil Doll del maledetto Mr. Doctor. La voce di Maurilio Rossi, durante la prima parte dell’album, somiglia a quella del letto secco di un fiume, che ha perso la sua ridondanza erodendosi nelle bieche gole di una ancora più spaventevole valle, non cedendo mai a quel passaggio melodico che invece ci si aspetterebbe nell’evoluzione spontanea delle partiture e quindi del climax liberatorio. Ma siccome sono gli individui a rendere un luogo pauroso (non il contrario, a quanto sembra), l’incalzante “For You” continua a mettere in mostra un sinfonismo maledetto che però, nel ritornello, ostenta un sentimento profondo tutt’altro che negativo; disperato forse, ma non malefico. Cosa ancora più accentuata in “Here with me”, brano legato a soluzioni più orecchiabili che potrebbero far pensare ad un curioso incrocio tra i Van der Graaf Generator e Kate Bush in salsa rigorosamente gotica, rivelandosi dopo qualche ascolto tra le cose più piacevoli (con suoni nostalgici finali tipo fisarmonica). “Clay Masks” è il preludio alla suite che sta per giungere, il vero cuore del concept, il cui riferimento più evidente – già a partire da questo punto specifico – saranno i Genesis riveduti, corretti e riadattati all’economia dell’intero lavoro, denotando comunque una certa originalità. La musicalità, soprattutto nella voce, da questo momento appare meno repressa (sempre più Genesis in versione maledetta), come le due parti di “The Silent Moonchild” stanno a testimoniare, con un bell’intreccio di chitarre su una marea crescente di suoni sovrapposti nella parte strumentale (presente anche Martin Grice dei Delirium). Dopo “Fading Under a Large Hat”, nel cui finale si impongono le sei corde di Gianni Rossi, da rimarcare “Ballad in the Moonlight”, col suo violino da ballata ancestrale, il cui finale giocato con la voce femminile è il preludio della bella “The Book of Time”. Trattasi di un brano in cui confluiscono tantissime influenze, anche di musica leggera traslata su riff pesanti, dove la splendida voce di Silvana Aliotta degli storici Circus 2000 porta la sospirata Luce nella cupezza e dialoga alla grande con Maurilio, integrandosi perfettamente anche con le note acute della chitarra di Gianni. Rimembranze di musica leggera anche in “The Silent Moonchild (the end)”, comunque a suo modo contorta, per chiudere definitivamente con “Moonchild End”. Che opinione avere di quest’album? Sicuramente non è semplice, in quanto – come già accennato – certe soluzioni hard rock non ci sono più, lasciando che la durezza continuasse a trasparire dall’approccio sinfonico decisamente ameno e dalle atmosfere sperdute. Una scelta comunque coerente, perché la proposta dei Goad è sempre voluta essere anticonformista, mai esattamente allineata a precisi parametri. Anche stavolta occorrerà quindi ascoltare e riascoltare con attenzione. Gli estimatori del succitato dark sound andranno in sollucchero; gli altri dovranno farci l’orecchio. Sembrerebbe però valerne anche stavolta la pena, almeno per buona parte dell’opera.
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