|
GOBLIN 4 |
Four of a kind |
BackToTheFudda |
2015 (Black Widow 2017) |
ITA |
|
Come già specificato nella recensione di “Alive” (2016) dei Goblin Rebirth, le sigle riguardanti i Goblin – storica band anni ‘70 legata a doppio filo alle pellicole horror di Dario Argento – sono molteplici. Numerose formazioni sia passate che attuali, tra le quali è molto facile far confusione. Senza contare anche altre denominazioni, tipo Cherry Five e per un brevissimo periodo i Reale Impero Britannico, quest’ultimi autori nel 1976 della colonna sonora “Perché si uccidono”. Stavolta, in copertina fanno bella mostra di sé i volti di Massimo Morante (chitarra), Fabio Pignatelli (basso), Maurizio Guarini (tastiere) e Agostino Marangolo (batteria), quattro assi tenuti stretti da delle mani demoniache… «Finalmente i Goblin, senza ulteriori denominazioni» si penserà, anche perché i vecchi componenti stanno quasi tutti qua (qualcuno è comunque subentrato in corsa, seppur durante gli anni gloriosi). E invece no! Manca infatti il maestro Claudio Simonetti e siccome il monicker originario può essere rispolverato solo se i fondatori si ritrovano tutti assieme, occorre inventarsi qualcosa che differenzi ulteriormente questa proposta. Dato che chi maneggia i quattro è un baro proveniente dall’inferno più brucente e che ha un bell’asso nella manica – jolly maligno rappresentato dalla copertina di “Roller” (1976) –, l’alzata di ingegno stavolta consiste nell’inserire all’interno della sigla il numero “4”. L’album era stato già pubblicato due anni prima dalla label indipendente BackToTheFudda, ma l’etichetta genovese Black Widow l’ha ristampato con buoni risultati, creando una confezione cartonata, un bel libretto ed inserendo anche quattro carte da gioco impersonate per l’appunto dai quattro musicisti. Si tratta di un lavoro praticamente tutto strumentale, dalla durata di circa quaranta minuti, i cui otto pezzi inediti cercano per lo più di rifarsi alla vecchia tradizione e tentando di stare in qualche modo anche al passo con i tempi. Un compromesso non facile, che tenta di non scontentare nessuno e che in molti casi rischia invece di scontentare tutti. Per carità, i musicisti in questione continuano a mostrare la propria professionalità e sarebbe ingiusto dire che hanno concepito un album brutto – questo proprio non lo si può affermare –, ma occorrerebbe capire quanto ci sia di spontaneo e quanto invece si basi su delle esigenze di compromesso. Ci sono un paio di pezzi molto interessanti, tipo “Bon Ton”, con Aidan Zammit (dai Goblin Rebirth) alle tastiere, illuminato improvvisamente dalla chitarra di Morante; ma anche la seguente “Kingdom”, cinque minuti e mezzo molto vivi e cangianti, in cui la sezione ritmica è sempre molto nervosa come i vari effetti che emergono nell’atmosfera spesso solenne, con le tastiere parecchio presenti ma mai invadenti e la chitarra che chiude in trionfo quella che davvero sembra una vecchia colonna sonora brillantemente resa attuale. Anche l’inizio è tutto sommato apprezzabile, con l’apertura cangiante di “Uneven Times”, grazie anche al sax di Antonio Marangolo, ospite spesso presente nei vecchi lavori firmati Goblin. Ciascuno a modo proprio, “In the Name of Goblin” e “Mouse Roll” tentano fin dal titolo di tributare il passato più illustre, con risultati alterni. E poi, a proposito di soluzioni cangianti, ci sarebbe da ascoltare “Dark Blues(s)”, che racchiude in sé varie soluzioni, da quelle più oscure contaminate dal blues (quasi sullo stile dell’ultimo Gary Moore), passando per cori gotici su un hard-blues cadenzato. “Love & Hate” si apre ricalcando i fasti delle vecchie colonne sonore che tanto fecero la fortuna del gruppo, per poi rilassarsi immediatamente ed esprimersi al meglio soprattutto col clavicembalo, prima di terminare troppo in fretta con un’altra variazione di atmosfera; “008” attacca invece con una chitarra dura e si sviluppa come le sonorità più ammiccanti e a loro modo “commerciali” dei Goblin (qualcosa in effetti difficile da spiegare), che però risulta alla fine troppo ripetitiva. La ristampa prevede una bonus, cioè la versione live di “Goblin” suonata ad Austin nel 2014. Dodici minuti che – guarda un po’ – forse risultano i migliori in assoluto. Sicuramente i nostalgici ed i fan ad ogni costo della band acquisteranno a scatola chiusa questa pubblicazione. In effetti, la produzione è discreta, la sezione ritmica è affidabile come sempre, la chitarra (quando si vuol rendere protagonista) è ficcante ed anche gli effetti tastieristici ripercorrono i classici stilemi. Quindi, perché non consigliarlo? Si tratta di un lavoro onesto, che come detto in apertura cerca di stabilire un giusto compromesso. Non si tratta di qualcosa di imperdibile ma nemmeno di un lavoro da scartare a priori. Forse qualcuno se ne chiede il senso? Beh, solo ed esclusivamente il piacere di suonare la propria musica. Magari per chi pone certe domande è troppo poco, chissà…
|
Michele Merenda
Collegamenti
ad altre recensioni |
GOBLIN REBIRTH |
Alive |
2016 |
|