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GRYPHON |
ReInvention |
autoprod. |
2018 |
UK |
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Per chi, come il sottoscritto, prova un’autentica riverenza verso la produzione storica del glorioso grifone del folk-prog, la sola notizia delle numerose reunion avvenute negli ultimi dieci anni (inizialmente in formazione tipo) era qualcosa da accogliere con immenso piacere, sublimato poi dalla diffusione da parte della stessa band di parte delle performance in video. Probabilmente, l’odierna attività in veste di compositore e direttore d’orchestra da parte di Richard Harvey, nel frattempo divenuto un’eminenza della musica “seria” britannica, ha fatto sì che il suo successivo distacco dalla band (in cui, ricordiamolo, ricopriva il ruolo di tastierista e flautista, oltre ad essere uno dei più proficui autori) abbia avuto la valenza di sacrificio necessario, permettendo ai Gryphon di raggiungere, dopo qualche aggiustamento, una line-up stabile che garantisse la continuità necessaria a programmare un nuovo lavoro di studio. Ed è proprio il primo parto dopo un’assenza discografica di 41 anni che abbiamo tra le mani (escludendo le due ottime raccolte di sessioni radio e live per la BBC), una “reinvenzione” che alla luce del numero di ascolti necessari si rivela in tutta la sua ricchezza, mantenendo pienamente qualsiasi promessa e oggettivamente superando le più rosee previsioni che uno stop di quattro decenni potevano suggerire. Andiamo per ordine. Mentre il tastierista e violinista Graham Preskett già era elemento aggiunto al momento del ritorno in pista, le novità assolute sono Andy Findon (flauto, crumorno, sax, clarinetto) e il bassista Rory McFarlane. La chitarra è sempre appannaggio di Graeme Taylor, le percussioni e la voce sono ancora quelle di David Oberlé, e l’iconico, irsuto, impareggiabile Brian Gulland (di cui ricordiamo anche una fugace esperienza nei Malicorne) lo ritroviamo con la sua lunga barba e le sue camicie sgargianti alle prese con fagotto, crumorno basso, flauto dolce o “recorder”, armonium e altre diavolerie. Qualsiasi timore di aspettative disattese è presto spazzato via dall’incipit che porta il bizzarro titolo “Pipe Up Downsland Derry Dell Danko”, con il recorder a duettare baldanzosamente con la chitarra e il clarinetto ad infoltire la trama del madrigale, e infine la voce declamatoria di Oberlé a completare il quadro, ovvero come ricreare in cinque minuti scarsi un mondo sonoro che credevamo perso nel lontano 1977. Come preannunciato dal titolo, “Rhubarb crumhorn” introduce il glorioso, antico aerofono ricurvo del maestro Gulland, con un incedere stavolta più solenne da corte medievale, fino all’ingresso della batteria, che sterzando in una direzione prog-rock ci riporta decisamente ai fasti di “Red Queen To Gryphon Three”; il fatto che il brano sia accreditato alla nuova leva Preskett la dice lunga sulla lungimiranza posta dai membri storici nella ricerca dei nuovi componenti. Chi ricorda album come “Raindance” e “Treason” ben sa che il mondo sonoro del gruppo include anche parentesi umoristiche, a smorzare qualsiasi sospetto di pretenziosità possa far nascere nell’ascoltatore una proposta così apparentemente anacronistica; così “A futuristic auntyquarian”, guidata da violino e clavicembalo è un azzardato e riuscito tentativo di contaminare un canone barocco con qualche elemento moderno, persino un accenno di boogie! “Haddocks' eyes” è una canzone scritta nel 1871 da Lewis Carroll e cantata dal Cavaliere Bianco in “Alice attraverso lo specchio”, qui è messa in musica da Taylor e costituisce il primo brano di lunga durata, dettata anche dall’estensione delle liriche originali;con una prima sezionedall’andamento più lineare e narrativo, in linea con il folk-rock inglese più canonico di Fairport Convention o Pentangle, costituisce una vetrina per Oberlé, che lascia infine spazio ad una ritmica spezzata ed un sax quasi dissonante a duellare con clarinetto e violino, trasformandosi in una sorta di sconclusionato “sea-shanty” per concludersi con una marcetta che sfuma su note pastorali. Arriva “Hampton caught” a portarci un po’ di semplicità, con soli recorder e clavicembalo, ma è solo un trucco: ecco che il fagotto e tutto il resto dell’armamentario salgono alla ribalta, per la prima volta la chitarra elettrica si fa sentire, ed un organo a canne ci ricorda l’importanza di questo strumento nell’economia sonora dei Gryphon, con Preskett, autore del brano, impegnato a non farci rimpiangere Harvey. “Hospitality at a price...(Dennis)anyone for?” è il culmine del lato goliardico dell’album, sempre mediato da una sensibilità tipicamente british, con le sue sonorità da jazz anni ’20 e il contrabbasso di McFarlane, ma funge anche da ideale spartiacque tra due ideali lati del disco. “Dumbe dum chit” è un brano che pone enfasi sul ritmo, come da titolo onomatopeico, si apre con il clarinetto di Findon ed evidenzia ancora l’importanza concessa al violino, stavolta in un contesto festoso e ludico. “Bathsheba” è un brano relativamente semplice, in cui una gran varietà di strumenti a fiato e il violino pizzicato si avvicendano alle prese con una frase musicale ripetuta e progressivamente arricchita di colori.Esplicite influenze celtiche sono invece alla base di “Sailor V”, altro episodio di lunga durata introdotto da un languido fiddle, che generosamente concede spazio a sottolineature di flauto e fagotto, nonché alle chitarre e l’armonica di Taylor, con un crescendo che sfocia in un raro assolo di chitarra elettrica su un’elegiaca base d’organo (strumento che nella seconda parte del disco riacquista un ruolo di primo piano) degno del miglior Mike Oldfield. “Ashes” è un brano acustico scritto da Taylor risalente agli anni ’70, forse l’unico ripescaggio del disco, e dipinge un quadretto bucolico inglese in soli tre minuti. La solenne e misteriosa “The Euphrates connection” rinverdisce infine i fasti celtici, esordendo su coordinate quasi liturgiche per esplodere in un tripudio strumentale, tra maestosi organi a canne e una sensibilità rock affine ai migliori Jethro Tull, costituendo un po’ la summa dell’intero lavoro. A conti fatti, troviamo nell’album un po’ tutte le sonorità della produzione storica dei Gryphon: dal folk rinascimentale puro dell’esordio, passando per la maggiore complessità compositiva di “Midnight Mushrumps” sfociata nel progressive rock tout-court del già menzionato album successivo senza dimenticare i calembour dei brani cantati. Il fatto che i crediti compositivi siano distribuiti quasi uniformemente tra i sei musicisti e che l’attività live sia fervente ed accolta entusiasticamente, ci fa vivamente sperare che questa “reinvenzione” non sia solo un rifulgente fuoco di paglia, ma il primo capitolo di una nuova fase nella loro carriera; personalmente, e per quanto ciò possa significare, costituisce la mia più convinta raccomandazione di acquisto da molti anni a questa parte.
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Mauro Ranchicchio
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