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THE GRAND ASTORIA |
The mighty few |
autoprod./Addicted Label |
2015 |
RUS |
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Spesso e volentieri si parla a sproposito da prog-rock, tanto per voler dare una definizione altisonante a quelli che sarebbero comunque dei dignitosi album di hard-rock o heavy metal dall’impostazione magari più matura, con qualche variazione e controtempo. Occorre subito specificare che questo non è assolutamente il caso dei russi The Grand Astoria, che con il loro sesto album hanno davvero inserito degli autentici elementi prog nel loro stoner, in quella miscela stilistica che loro stessi definiscono “jam psichedelica che fa sesso con heavy metal”. La copertina solenne e maledetta, disegnata da Sophia Miroedova, sottolinea questa macabra sinfonia con cui si sviluppa l’intero lavoro nell’arco di due soli e lunghissimi brani. Era iniziata nel 2009 l’avventura discografica del gruppo di S. Pietroburgo che ha mutuato il proprio nome da uno sfarzoso albergo che si trova in città, con immagini e attitudini che farebbero pensare più a una compagine statunitense da desert-rock. La band europea del chitarrista e cantante Kamille Sharapodinov, invece, non si fossilizza e va avanti, forte di un retroterra tanto musicale quanto culturale molto forte (si consiglia di ascoltare l’album solista molto psichedelico di Sharapodinov del 2003, “Microcosmos chronicles”). Inizialmente concepito per poche centinaia di copie su vinile, l’album presenta come detto due lunghi brani, idealmente uno per facciata. Il primo “Curse of the Ninth” dura ventotto minuti e si apre con un’atmosfera cupa e lenta, scandita dal piano elettrico di Denis Kirillov e dal clarinetto misterioso di Ravil Azizov, prima che parta un incedere nello spirito inesorabile dei Black Sabbath. Le voci intrecciate di Sharapodinov e di Danila Danilov sono acute e in questo incedere cadenzato ricordano molto quei brani che fecero da apripista al futuro doom nei primi album del Sabba Nero. Ma dopo che le sei corde avevano ruggito davvero, ecco che sul finire del sesto minuto si placano di colpo gli animi; la tensione viene spezzata dalle corde dell’acustica e dal flauto di Danilov, subito prima che il piano diabolico riprenda i suoi insinuanti fraseggi con un altro strumento a fiato. Il sax di Valery Dudik e la tromba di Alexey Nikiforov, oltre ai già citati clarinetto e flauto, saranno degli strumenti fondamentali per sancire i vari momenti di passaggio. Nel frattempo, il basso di Eugene Trukhin si fonde con le percussioni di Kirill Serov e la batteria di Alexander Filippov, mentre la voce estraniante ha portato in lidi psichedelici che strumentalmente vengono contaminanti dal jazz e gli elementi percussivi divengono sempre più insistenti, con lo stridore dei fiati. Una situazione sempre più densa e pressante, che strategicamente va allentando la tensione per poi tornare a sferzare con elettricità stoner all’altezza del quarto d’ora, andandosi a fondere subito dopo con cavalcate cosmiche via via bollenti e irrespirabili. Poco prima del diciannovesimo minuto tornano a far fugacemente capolino Tony Iommi e soci, per essere subito velocizzati, interrotti da dei quieti cori e poi riprendere con i riff cadenzati di cui sopra. Gli ultimi minuti sono lasciati ad una specie di sinfonia maledetta, interrotta nuovamente dalla chitarra acustica e dal flauto, prima che il tasto di un pianoforte non metta fine a tutto… Così, dopo tanta abbondanza, si passa ai ventuno minuti di “The Sierge”, dove sintetizzatori e chitarra elettrica sembrano aver preso completamente la scena, a sua volta spianata dalle irregolarità ritmiche, prima che subentri un rinnovato ritmo ossessivo ed un brutto vento cosmico. La scena così cambia completamente… e diventa persino quieta e jazzata! Una tromba da cool jazz fa da accompagnamento scanzonato e un po’ allucinato; la voce posta in secondo piano, molto anni ’70, acquisisce di colpo spessore e sembra quasi da scenario post-rock. Le percussioni guidano fino al nuovo ribollire sonoro, da scenario apocalittico e sinfonico che forse dura un po’ troppo, prima che la tromba torni a commentare questo arrovellarsi rumoristico. La musica va poi pian piano calando, fino quasi a essere sussurrata in uno stadio di alterazione psichedelica differente, simile forse al primo Steven Wilson. Ed ecco i controtempi e gli stridori che ricordano i King Crimson! Questo porta ad un gran finale solenne, con gli ottoni spiegati e la chitarra che spazza gli ostacoli. Bene, se si volesse dare un’opinione sui due brani, il primo sembra essere comunque quello più interessante. Ma alla fine, la band russa pare aver fatto un gran bel lavoro ed essere andata anche oltre quelle che potevano sembrare le capacità fin qui mostrate. Evidentemente non era vero, si trattava di musicisti capaci di poter dare davvero di più. Lo hanno fatto, merito a loro. I detrattori ci saranno sempre, inutile andarci dietro. Sharapodinov e i suoi compagni di avventura hanno saputo davvero “progressivizzare” la propria proposta musicale, andando sempre più avanti nella ricerca. Dopo questa pubblicazione, infatti, sarebbero cominciate collaborazioni per approdare presso altri lidi sonori. Ma questa è diventata già un’altra storia.
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Michele Merenda
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