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GRUMBLEWOOD |
Stories of strangers |
Gravity Dream |
2020 |
NZ |
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I Grumblewood sono un quartetto di Wellington al loro esordio discografico. Per ricreare autentiche atmosfere anni Settanta hanno deciso di registrare, mixare e masterizzare queste otto canzoni interamente in analogico con un equipaggiamento d’epoca. Direi che l’esperimento è riuscito benissimo perché questa musica sembra uscita da chissà quale cantina di qualche decennio fa e presenta un calore e delle colorazioni inconfondibili ed autentiche. Il sound è piacevolmente ruvido, sfumato da inebrianti gocce di psichedelia e fa traspirare una passione genuina. Lo stile è improntato ad un folk di matrice celtica con una veste hard rock secondo dettami che sono stati seguiti in passato da Jethro Tull e affini. La voce di Gav Bromfield, che suona anche pianoforte, chitarra acustica e flauto, è piacevolmente acidula e sfocata e mostra qualche vaga somiglianza con quella di Ozzy Osbourne. Il suo modo di suonare il flauto inevitabilmente ci riporta ad un giovane Ian Anderson anche se la scrittura di queste tracce appare senz’altro più semplice rispetto a quella dei maestri inglesi. Alle chitarre c’è Salvatore Richichi che suona anche il Banjo ed il mandolino (strumento che potete apprezzare ad esempio nella delicata ballad “Picturesque Postcard”, una sorta di novella “Wond'ring Aloud”). Il basso di Morgan Jones (che suona anche il clavicembalo) ha una timbrica molto profonda e spesso lo sentiamo in primo piano rispetto alla chitarra a guidare il ritmo di pezzi come “Fives and Nines” che presentano una anima oscura e pulsante con deliziosi riflessi hard blues. Anche la batteria di Phil Aldridge ha un bel tocco e la sua performance è molto vibrante e adeguata allo stile del gruppo. Tutti i brani scorrono in modo piacevole ma mi piace citare fra tutti “Castaways”, con i suoi begli assoli incrociati di chitarra, e soprattutto la lunga “Minstrel” (8 minuti), variegata e con contaminazioni che provengono dalla musica barocca in apertura, col flauto ed un clavicembalo molto nascosto, ma anche con sfumature jazzy che spostano un po’ il baricentro di un pezzo diretto ma molto fantasioso. Un po’ avulsa dagli altri brani è forse la ballad conclusiva, impreziosita dai cori delle ospiti Naomi Middleton e Kirsty Campbell, che ha un approccio più moderno. Se questo album fosse davvero degli anni Settanta sarebbe un autentico tesoro nascosto ma la realtà è che si tratta di un piacevole falso d’autore. Possiamo anche far finta di nulla e goderci semplicemente la musica, il divertimento è comunque assicurato.
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Jessica Attene
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