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I GIULLARI DI CORTE |
Presa di coscienza |
autoprod. |
2020 |
ITA |
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I bolognesi Giullari di Corte nascono nel 2002 come trio composto da Matteo Balestrazzi al basso, Alessio De Angelis alla batteria, voce e chitarra acustica, Paolo Zacchi alle tastiere, chitarre, voce, e cura degli aspetti tecnici per arrangiamenti, registrazione e produzione. Nella primissima formazione era presente anche Michele Poggio al violino elettrico. Il nome ce lo dice già: la band è indirizzata verso un prog classico all’italiana, quello degli anni ’70, che in maniera un po’ sbrigativo e un po’ inconsistente molti definiscono RPI. Un prog dai tratti sinfonici, idealmente abbastanza lontano dalle caratteristiche del prog più moderno, sia come suoni che come costrutto dei brani e degli assolo. Dopo l’avvio del 2002 iniziarono immediatamente la composizione di brani propri, incidendo anche un demo di sette brani, da lì a qualche mese il violinista Poggio sceglie altri tipi di carriera e lascia la band. Il colpo deve essere stato piuttosto importante perché la band, come dagli stessi dichiarato, è finita in coma fino al 2017, quando repentinamente decisero di rimettersi a lavorare sui vecchi brani e aggiungerne di nuovi, per formare questo “Presa di coscienza”. Dieci tracce, mediamente abbastanza brevi, per quasi 45 minuti di musica scorrevole e piacevole con ampie sezioni strumentali e cantati misurati presenti solo su alcuni brani. La decisa maggioranza dei brani sono sorretti e strutturati sulle tastiere, fa eccezione la conclusiva “Sabbatho Nero” un rock piuttosto deciso, dotato di chitarre distorte e di una serie di riff e assolo aggressivi e dal piglio blues, che però sconta una certa monotonia ritmica e una esagerata reiterazione del riff principale. Nella varietà dell’incisione troviamo tracce di prog sinfonico decisamente anni ’70, come la prima traccia “Nautilus” o come “Viaggio in treno senza biglietto”, nella quale salta all’orecchio una melodia decisamente troppo vicina a “White Mountain” dei Genesis di Trespass. Troviamo anche un paio di brani stilisticamente più vicini al jazz, jazz rock come “L’ombra di Sherlock Holmes” con qualche attinenza stilistica con la famosissima “Take Five” di Dave Brubek o la successiva “La cicala e la formica nello spazio”. Ancora variazioni e stavolta con tendenze hard prog o comunque hard rock con “Vent’anni spesi bene” o “Il prezzo”, con quest’ultima che pecca un po’ in banalità melodica dei cantati. Tra tutti i brani quelli più convincenti rimangono la citata opener e “Dolcetto o Scherzetto” un misto tra hard prog e una danza dal sapore della giga, ma con tempo binario. Sia il cantato che il testo risultano piuttosto interessanti. Concludendo, un disco discreto, con qualche momento migliore e altri un po’ ingenui e poco finiti. Trovo comunque piuttosto strano dichiarare apertamente le proprie mire di rock progressivo e poi produrre un disco con contenuti variabili dal pop al rock, al jazz al prog sinfonico. Tecnicamente, alzando un po’ il livello di scrittura e il livello tecnico, ritengo ci siano buoni presupposti di miglioramento, sfruttando la già buona personalizzazione dell’insieme musicale e del concetto generale di opera sonora.
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Roberto Vanali
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