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Cambia label la “creatura” di Maurilio Rossi, passando dalla genovese Black Widow alla My Kingdom Music di Nocera Superiore (SA), accentuando così – di fatto – la vocazione dark-prog che si era ulteriormente sviluppata nell’ultimo decennio. In un contesto che dichiaratamente accoglie proposte oscure, estreme e decadenti, ecco che i contenuti divenuti sempre più cupi della compagine toscana trovano la propria naturale collocazione, continuando ad andare avanti senza compromesso alcuno. La proposta segue la strada intrapresa sul precedente “Landor” (2018), con quella visione decadente nominata all’inizio e forse anche un po’ scapigliata, che in quanto tale guarda al modello dell’artista bohemien. E proprio come accaduto sull’album citato, anche stavolta si prende come riferimento un autore britannico, vale a dire il poeta John Keats, ritenuto tra i più significativi artisti del Romanticismo inglese, capace di accostare immagini che ricreassero suoni. Profondamente convinto che le vocali dovessero essere intese come note musicali, il letterato di Moorgate (Londra) intendeva proprio ricreare musicalità nelle sue descrizioni così vivide; tra le sue opere vi era anche la ballata “La belle dame sans Merci”, il cui titolo è stato a sua volta mutuato dal pometto omonimo di Alain Chartier risalente addirittura al XV secolo. Maurilio, quindi, crea un concept attorno a quest’opera ricca di immagini e di autentici enigmi che hanno fatto discutere gli esperti di letteratura, racchiudendo il dischetto in una confezione dal booklet grigio come le impenetrabili nebbie delle favole d’Oltremanica e con tutti i testi riportati tramite calligrafia stilizzata. Un effetto che inizialmente non fa capire nulla su cosa ci sia effettivamente scritto, non sapendo se definire l’ideatore come un artista arguto oppure mandarlo a strabenedire con tutti i sentimenti! Con questo equivoco iniziale (rimasto aperto), l’opera viene in realtà introdotta da “The Haunted Palace In The Poe' Land”, ispirata come da titolo ad Edgar A. Poe (anche le liriche sono del succitato poeta), altro artista più volta tributato dai Goad. Occorre sottolineare che mai come in questo caso occorre ascoltare l’album in originale o comunque con un sistema in alta fedeltà, perché la differente tipologia audio incide parecchio sul giudizio finale. Si tratta di una proposta che va assimilata con la corretta profondità dei suoni, altrimenti suonerà arida, senza alcuna emozione significativa. Alzando il volume, invece, già dal brano iniziale diviene evidente come la voce “arsa” del mastermind si appoggi alle linee di basso profonde e alle note saltellanti delle tastiere, che appaiono sottilmente allegre e allo stesso tempo sinistre. Con “The Queen Of The Valley” si entra nell’immaginario ispirato da Keats, rivelando una traccia che sembra non aver alcun punto di riferimento e mutando continuamente, senza concedersi a un ritornello che possa essere orecchiabile (belle però le soluzioni tastieristiche nel finale), guardando probabilmente alla filosofia compositiva di Peter Hammill. L’andamento ameno continua poi con “The Man In The Dreamland”, dove ci si sente totalmente sperduti in un ambiente onirico e darkeggiante. Tutto questo lavoro è contraddistinto da ritmiche che ricreano visioni circensi all’interno di un sogno tormentato e la voce di Maurilio Rossi è costantemente sibilante (forse fin troppo), sfruttando però soluzioni strumentali elaborate, pur non sfociando nel virtuosismo eclatante. Era accaduto anche sul precedente lavoro: i primi pezzi suonano più chiusi, ma proseguendo (a partire dalla quinta canzone, in questo caso) le dinamiche danno la sensazione di divenire più profonde; non si sa se questa sia una scelta voluta oppure un fattore assolutamente accidentale. Nel suo sviluppo, comunque, l’album contiene tre suite. La prima è “Magic Starway”, divisa a sua volta in altre tre parti, la cui sezione migliore è proprio la terza; una lunga introduzione strumentale, seguita poi da una bella interpretazione vocale di Maurilio, differente dal monocorde scenico ascoltato nelle tracce precedenti, rievocando ancora una volta riferimenti ai Van der Graaf Generator. “To Sorrow Good Morrow” è invece divisa in cinque parti; qui occorre citare la varietà delle contrastanti ed atmosferiche soluzioni strumentali del secondo movimento, uno degli episodi compositivi migliori, con i suoi trilli di pianoforte e lo strano gioco di chitarra che vien fuori tra i vari effetti. Ma anche il terzo, in cui proprio la chitarra elettrica si rende protagonista con un approccio inedito, mentre i piatti della batteria suonano più squillanti del solito, oltre la varietà del quarto – in particolare nella sua seconda parte – che si immette nella rilassatezza del quinto ed ultimo movimento. In questa uscita, in sottofondo, si sente sempre una sorta di fruscio, tipo le vecchie musicassette a poco prezzo (effetto voluto o difetto di registrazione? Da approfondire), piuttosto evidente nell’apertura della terza ed ultima suite, “The Sweetness Of The Pain”, che risulta comunque ben articolata ed arrangiata nelle sue tre parti, soprattutto l’ultima. Il buon Maurilio, anche su questa uscita discografica, canta, arrangia, compone e suona pressoché tutti gli strumenti, coadiuvato comunque da Gianni Rossi (chitarra), Alessandro Bruno (chitarre, violino, flauto, sax, oboe), Paolo Carniani (batteria) Francesco Diddi (chitarre, violino, flauto), Antonio Vannucci (tastiere), Filippo Trentastasi (batteria) e Martin Rush (effetti, basso, voce). Una bella sfilza di musicisti che va elencata, per comprendere come ci sia stata una cura davvero maniacale di ogni singolo tassello, che poi è stata inserita in un suono vintage che comunque rischia di far soffocare in una polvere virtuale i particolari duramente ricreati. La proposta diventa introversa ed ermetica, necessitando una quantità maggiore di ascolti affinché ci si possa immedesimare sempre più in queste partiture non certo semplici. Si spera che il pubblico, ormai da anni abituato a correre, ci faccia un pensiero, si fermi… ascolti e quindi assimili. Una scelta senza compromessi, si diceva all’inizio. Per l’appunto.
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