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MASSIMO GIUNTOLI F.I.T. MolkayaRec/Adnrecords 2021 ITA

L’utilizzo della voce considerato alla pari di un qualsiasi strumento musicale, nonostante sia ogni tanto presentato come un’innovazione o una particolarità di cui vantarsi, esiste sin dalla nascita della musica stessa. A ben vedere, la voce è stata probabilmente lo strumento delle prime rudimentali manifestazioni artistiche umane, parallelamente all’uso di pezzi di legno per creare suoni percussivi. Anche le lingue inventate, sia al di fuori che all’interno di un contesto musicale, non sono una novità, come i fan dei francesi Magma ben sanno. È questo lo scenario in cui si cala Massimo Giuntoli col suo “F.I.T.”, album in cui la voce è assoluta protagonista con risultati a mio avviso impressionanti. La cosa non deve stupire, data la caratura di un artista la cui definizione di “poliedrico” è probabilmente l’unica possibile.
“F.I.T.” (Found In Translation) è basato su testi scritti in una lingua (in varie lingue, in realtà) parlata in una regione immaginaria chiamata “Molkaya”, della quale non esistono immagini e il cui territorio ha un’estensione variabile dipendente dall’umore degli abitanti,suddivisi in cinque popolazioni aventi diversi usi e costumi riassunti nell’apposita pagina web raggiungibile dal sito di Giuntoli e in un libro di racconti da egli scritto. Tra le varie bizzarrie, le principali attività dei molkayani consistono nel costruire aeroplani di carta capaci di evoluzioni inspiegabili, svolgere lavori e faccende quotidiane adoperando vari tipi di “inutensili” e osservare da un punto specifico del proprio territorio i pianeti Gong e Kobaïa nonché l’asteroide 3834 Zappafrank (questo realmente esistente e dedicato dal suo scopritore al compositore americano).
Arriviamo finalmente alla parte strettamente musicale di “F.I.T.”, il cui riferimento principale è senz’altro il Canterbury sound più bizzarro. Lo spettro dei Gong vaga per tutto il disco, influenzando però la musica di Giuntoli in maniera più che altro indiretta. Nel disco non sono presenti percussioni e la struttura ritmica è affidata agli arrangiamenti suonati dall’autore alle tastiere e all’harmonium. I brani hanno durata variabile, dai due minuti e mezzo di “Si Landari Barigodà” ai quasi ventotto della monumentale “Dan Rhanda Wey”, vero e proprio viaggio sonoro e mentale nella lingua e nelle atmosfere molkayane. Nelle composizioni è difficile, se non impossibile, afferrare uno schema fatto di consuete strofe e ritornelli. L’ascolto migliore difatti prevede il lasciarsi andare alle numerose atmosfere che Giuntoli assembla alla perfezione. Queste passano attraverso momenti allegri e frenetici, oppure carichi di tensione, epici, malinconici, fiabeschi, sinistri o dissonanti. I cambi di tempo abbondano e si susseguono spesso in maniera inaspettata per pochi attimi dando l’impressione di un approccio “free” a tutto il lavoro, che immagino invece essere frutto di un meticoloso processo di scrittura. Le parti vocali sono ovviamente il cuore dell’album e per quanto mi riguarda sono uno degli esempi più rappresentativi di “voce-strumento” che abbia mai sentito. Ciò che apprezzo, inoltre, è l’assoluta integrazione con le bellissime parti strumentali, ricche e corpose e sviluppate in un turbinio di organi, piani elettrici e harmonium, densamente stratificate ad accompagnare le litanie e le declamazioni vocali. La durata di un’ora e la mancanza di punti di riferimento precisi nella struttura dei brani potrebbero rendere pesante l’ascolto, ma questo è facilmente evitabile se si riesce ad entrare nello spirito del lavoro. In fondo è sufficiente immaginare di fare un viaggio in Molkaya per osservare gli abitanti nelle loro attività quotidiane. Con lo spirito giusto e con una certa dose di immaginazione, non dovrebbe essere difficile.



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Nicola Sulas

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