Home
 
THE GREAT WIDE NOTHING Hymns for hungry spirits vol. II autoprod. 2023 USA

Ho un debole per il prog a stelle e strisce: dai Kansas agli Starcastle, dai Babylon ai Cathedral, dai Discipline agli Echolyn, passando poi, in tempi più recenti, per i Bubblemath e i Thank You Scientist, fino a giungere ai nuovissimi Birth e Moon Letters. Un universo sonoro variegato ed intrigante anche se, non di rado, sottostimato dalle nostre parti. A tutti questi bei nomi (e decine e decine che ho tralasciato per ovvi motivi) dal 2019 ho “aggiunto” il trio dei Great Wide Nothing del deus ex machina Daniel Graham (chitarrista, cantante e gran bassista, nonché compositore) che, con un pizzico di orgoglio, mi vanto di aver scoperto, navigando in Internet, già con l’album d’esordio “The view from Olympus”. La band, completata da Dylan Porper (tastiere, chitarre e cori) e da Jeff Matthews (batteria), aveva (ed ha…) tutto per conquistarmi: un’invidiabile perizia strumentale con un Rickenbacker ruggente, grande feeling sinfonico, belle soluzioni melodiche ed una costante, ma mai eccessiva, vena hard rock. Tutte caratteristiche che ritroviamo nell’appena pubblicato “Hymns for hungry spirits vol.II”, interamente autoprodotto, come i due precedenti, dalla band.
inque sono i brani che compongono l’opera, con tanto di suite, di venti minuti, posta sul finale. L’iniziale “Blind eye to a burning house” parte subito con l’acceleratore a tavoletta: sound granitico, il basso dirompente di Graham, refrain subito memorizzabili, “solos” di synth d’ordinanza. Grande inizio, insomma. L’organo di Porper ed il basso à la Squire di Graham aprono “The portal and the precipice”, il brano più breve (neanche quattro minuti) del lotto. Sempre grintoso e spumeggiante il suono con qualche rimando allo hard rock britannico dei Seventies (Uriah Heep?).
“Viper” è probabilmente il pezzo più eterogeneo dell’intero album. Un’introduzione strumentale di circa un minuto e mezzo, poi l’ugola di Graham decisamente “arrabbiata” (e leggermente “distorta”) si fa strada in un contesto sonoro vigoroso che si alterna con sprazzi delicati condotti dal piano di Porper, che si segnala anche per uno smagliante “solo” di tastiere.
Non ci appaga completamente “Inheritor”, che suona… strana in ambito Great Wide Nothing… forse voleva essere più pop, più leggera, più “Eighties”, comunque sia non mi sembra molto nella corde di Graham e C. Si ritorna prontamente ben oltre la linea di galleggiamento con la suite finale “To find the light part two” (la parte “one” apriva l’album del 2020), senza dubbio alcuno l’apice dell’album, se non dell’intera discografia della band. Venti minuti di altissimo livello, in cui si sublima la magniloquenza prog del trio, senza però mai esagerare con effetti speciali stucchevoli. Una lunga introduzione strumentale in crescendo ritmico anticipa il cantato di Graham, mentre il sound è guidato, stavolta, dalla chitarra elettrica che cavalca la solita impetuosa onda ritmica. Pregevole la sezione strumentale centrale, quasi floydiana per le sue atmosfere fluttuanti, un basso sempre poderoso e uno Hammond che impazza che è un piacere. Ritorna il cantato, intorno al quindicesimo minuto, che ci conduce gradualmente al finale affidato alle note del piano. Pezzo splendido se si pensa, in aggiunta, che di fatto non esiste o quasi un refrain vocale degno di nota. L’aspetto vocale si riduce a puro contorno della musica… e che musica!
Un’opera che non possiamo dire che ci abbia spiazzato, perché i primi quattro brani sono in pieno Great Wide Nothing style e, quindi, pienamente nelle aspettative, ma “To find the light part two” eleva decisamente le quotazioni (e le attese future…) della band, che già nei due cd precedenti aveva mostrato il proprio talento e che qui, nella suite, si è certamente superata confezionando il proprio capolavoro.



Bookmark and Share

 

Valentino Butti

Collegamenti ad altre recensioni

THE GREAT WIDE NOTHING The view from Olympus 2019 
THE GREAT WIDE NOTHING Hymns for hungry spirits vol. 1 2020 

Italian
English