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GREEN SKY ACCIDENT |
Daytime TV |
Apollon Records |
2022 |
NOR |
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L’attivissima etichetta norvegese Apollon ci ha deliziato in tempi recenti con allettanti proposte in campo progressive (Kornmo, Trojka, Shamblemaths, Suburban Savages, Arabs in Aspic solo per citarne alcune), ciò non significa che la sua proposta sia limitata a questo genere musicale, ed infatti siamo qui a parlare di una band per sua propria stessa ammissione è dedita ad un “indie rock” energico, con riff orecchiabili, buone dosi di melodia e che strizza l’occhio all’agrodolce suono “jangly and noisy” degli anni ’90. La realtà si rivelerà un po’ più complessa e sfaccettata, soprattutto considerando quanto al giorno d’oggi sia divenuta vaga la definizione di indie. La band di Bergen, composta da Tore Torgrimsen (chitarra, voce), Stian Mathisen (chitarra), Svein Grindheim (basso) e Eivind Mjelde (batteria), esordì nel 2010 con l’album “Drops of colour”, seguito nel 2015 da “Fever dreams” e nel 2017 da “Plura” e “Hollow creatures”. Per quanto non ci siano gli elementi per far rientrare una band come i Green Sky Accident nel pur eterogeneo calderone che chiamiamo prog, si possono trovare all’interno della loro proposta spunti interessanti riconducibili al post rock e ad un art rock raffinato, con un innegabile gusto per la melodia, evidenziato anche dalla sognante (ma all’occorrenza ruvida) voce di Torgrimsen. Certo, per i parametri di molti di noi, brani come “In vain” possono risultare troppo semplicistici e diretti, ma in compenso sono rimasto personalmente intrigato dalla maggiore complessità e ricerca sonora dell’opener “Faded memories” o dell’altrettanto elaborata “Point of no return”, in cui gli intrecci delle due chitarre producono un effetto straniante e la sezione ritmica rivela un’indubbia fantasia esecutiva, proponendoli come pur lontani parenti dei connazionali Motorpsycho. Occasionalmente, e soprattutto nella parte centrale dell’album, si finisce in territori “power pop”, com’è il caso della solare ed ultra-orecchiabile “Insert coin”, certamente adatta a passaggi radiofonici, la breve ma euforica “Screams at night” o la frizzante (a dispetto del titolo) “Finding failure”. In coda al disco si riacquista una certa epicità e sostanza grazie all’intensa “Sensible scenes” e la conclusiva, malinconica “While it lasted”, vagamente in stile Mogwai, specie nel crescendo finale. Come curiosità, notiamo come il breve intermezzo pianistico di atmosfera (“Lid”) sia l’unico intervento di uno strumento a tastiera. Riassumendo, ci troviamo di fronte ad un album composto di brani apparentemente eterogenei, spesso malinconico e sognante, a volte più aggressivo ma che in definitiva e dopo ripetuti ascolti rivela un’atmosfera coerente, il cui ascolto consiglio a chi cercasse una divagazione dagli stilemi più frequentemente trattati su queste pagine.
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Mauro Ranchicchio
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