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GIANT THE VINE A chair at the backdoor Luminol Records 2023 ITA

Nel 2019 l’esordio su Lizard Records con “Music for empty places”, negli anni seguenti una variazione nella formazione, tanti brani già pronti, alcuni dei quali sono stati riveduti e corretti, la voglia di cimentarsi in un lavoro interamente strumentale, la pandemia, un processo di registrazione che ha richiesto del tempo ed un cambio di etichetta. Si giunge così al 2023 e al secondo album per i Giant the Vine, pubblicato dalla Luminol Records. La band ligure che si è presentata a questo appuntamento vede Antonio Lo Piparo al basso, Daniele Riotti alla batteria, Fulvio Solari alle chitarre e Fabio Vienna, autore di tutte le composizioni, alle tastiere e alle chitarre. In più ci sono ospiti al pianoforte e al sassofono. Ad aprire il disco troviamo “Protect us from the truth”: gli arpeggi di chitarra creano una sensazione di inquietudine, poi le tastiere orchestrali sono il preludio all’entrata decisa della sezione ritmica, che pur donando energia non fanno venire meno l’atmosfera misteriosa, mentre il sax offre un po’ di colore in più. Seguono stacchi, rallentamenti, crescendo, ma resta alta l’intensità per un brano che trova un felice connubio tra rock sinfonico e reminiscenze floydiane. In diversi brani seguenti, come “The potter’s field”, “Jellyfish bowl” e “A chair at the backdoor”, queste ultime influenze vengono maggiormente a galla e sono catapultate verso tempi moderni, un po’ come avevano fatto i Porcupine Tree nei primi anni di attività. Avrete capito, quindi, che i Giant the Vine puntano su sonorità che vogliono colpire sì per la loro perizia, ma stando ben lontani da tecnicismi e autocompiacimento e cercando, piuttosto, di attirare con sensazioni oniriche e avvolgenti. E mantenendo queste coordinate a cavallo tra sinfonismi e space-prog, a volte il sound si avvicina anche a certo post-rock, evidenziando soluzioni care a Mogwai, Tortoise e digressioni di derivazione King Crimson, con quei passaggi docili che sfociano in pieni travolgenti, vedi “Glass” e “The inner circle”. E di tanto in tanto l’aria diventa particolarmente rarefatta, facendo emergere spunti presi a prestito dai migliori Talk Talk. In “Heresiarch”, si legge invece una costruzione più vicina a certe soluzioni adottate da Steven Wilson nei primi album solisti, con una chitarra nervosa e frippiana, intrecci avvincenti e ritmi sostenuti, ma pronti a improvvise variazioni. Impegnarsi in un album interamente strumentale è sempre sfidante, ma nasconde, nemmeno troppo velatamente, non pochi trabocchetti. I rischi di essere ripetitivi, stancanti e prevedibili sono dietro l’angolo. Ma, alla fine, possiamo dire che i Giant the Vine hanno superato la prova con abilità, riuscendo a presentare in poco più di tre quarti d’ora una serie di pezzi convincenti, in cui le influenze sono ben mescolate e sono immediate le sensazioni positive verso questo sound che, seppur non originale, sa essere brillante e seducente.



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Peppe Di Spirito

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