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HOUSE OF NOT The walkabout of a nexter niode - part 1 (Off the path) & 2 (Sexus) Freakstreet Productions 2003-2005 CAN

Talvolta non è semplice recensire un disco. In questo caso, inoltre, si tratta di due album gemelli, i primi due capitoli di una saga che – nelle intenzioni – dovrebbe contare, alla fine, cinque episodi. Autori ne sono questi canadesi, i quali sono tra l’altro al debutto. Come esordio, non potevano fare una scelta più coraggiosa. Gli House Of Not, più che un vero e proprio gruppo, sono un progetto aperto, ruotante attorno a tre musicisti, a loro volta coadiuvati da una folta schiera di collaboratori esterni. La preparazione tecnica di questi ultimi è, a mio avviso, rimarchevole. Stesso discorso per la resa sonora di questi due CD. Insomma, abbiamo a che fare con una rock odissey (l’espressione è degli stessi House Of Not) ottimamente suonata e prodotta, curata fino ai minimi dettagli. Anche l’artwork, in proposito, dice la sua. E la musica? Qui viene il bello. Stilisticamente, siamo dalle parti dei migliori Pink Floyd. L’utilizzo di voce e chitarra rimandano, in maniera persino troppo insistita, a Roger Waters e David Gilmour. L’amore di infanzia per i quadri sonori dipinti in “The Wall” e “The Final Cut” fa il resto. Tuttavia, la scelta di inseguire soluzioni timbriche così derivative – sia pur belle – non fa di questi canadesi dei semplici cloni. Anzi, il modello originale è spesso ripensato in maniera creativa e originale, con grande varietà di moduli stilistici. Il rischio di dispersività, per quanto presente, è comunque esorcizzato da un filo rosso che tiene sempre unite le varie parti (tese a formare un’unica suite). La durata è, infine, di cinquanta minuti per il primo atto e di sessanta per il secondo. Una mossa intelligente, un maggiore minutaggio avrebbe potuto stancare o disorientare l’ascoltatore.
Se il primo capitolo, "Off the Path", è di certo più orchestrale – ora liquido ora enfatico, ora onirico ora spaziale – il secondo, "Sexus", predilige momenti di stampo più rock, con echi sovente di ascendenza blues. E’ un blues moderno, ad ogni modo, quello di questi House Of Not, decisamente progressivo. Chi legge non abbia paura. Si tratta di un’opera rock sinfonicissima, con un uso ben calibrato di tastiere e soprattutto synth, mai invadente eppure assai efficace. Certi brani, tra i quali la splendida ballad “Mainstream” o la conclusiva “Sanctuary” possono sembrare outtakes di “Meddle” o “Atom Heart Mother”. Le prime due parti di questa saga sono dunque molto sofisticate, più d’atmosfera la prima, vagamente più hard la seconda. A fronte di altre produzioni simili sentite in passato – penso ai Solar Project, tedeschi con vari dischi in carniere – qui siamo su altri e ben più alti livelli. Stupisce, in particolare, la sicurezza che si percepisce essere dietro questo progetto. Quanto ai contenuti ivi descritti, non vi anticipo nulla: basti sapere che vengono trasformati in affresco musicale riflessioni spesso profonde sui mutevoli stati d’animo dell’uomo del XXI secolo. Nell’insieme, visto lo spessore artistico e la maturità espressa, non posso non invitare i lettori – e non solo quelli che amano le melodie e la grandiosità floydiane – a scoprire il mondo degli House Of Not. Peraltro, alla luce della particolarità della proposta (quanto mai impegnativa), consiglio, se riuscite a darglielo, un ascolto preventivo. I tre canadesi, in ogni caso, meritano davvero, come la stampa specializzata internazionale non ha mancato di sottolineare. Non saranno i nuovi Pink Floyd, ma, stante la vuota autocelebrazione di cui è rimasto prigioniero il gruppo maggiore, i nordamericani dimostrano voglia di fare ed entusiasmo. E soprattutto idee. C’è vero calore, in questi solchi laser. Il ricorso, attento e misurato, all’elettronica, non fa (paradossalmente) che confermarlo. Dategli una chance, non credo ne rimarrete delusi.

 

Davide Arecco

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