Home
 
PETER HAMMILL Singularity Fie! Records 2006 UK

Archiviata momentaneamente la parentesi Van der Graaf Generator, la cui reunion dello scorso anno si è conclusa in modo non proprio indolore con la dipartita di David Jackson (non sappiamo se spontanea o meno) e la riduzione ad un inedito trio, Peter Hammill torna a calpestare territori a lui forse più congeniali con il ventottesimo album solista di studio (escludendo le collaborazioni, i volumi della serie sperimentale “Sonix” e le inevitabili antologie).
Probabilmente per differenziarsi e prendere maggiori distanze dal progetto del gruppo, Peter decide stavolta di produrre un album in completa solitudine, come avvenne alla fine degli anni ’70 con la triade “The Future Now”, “pH7” e “The Black Box” ma rinunciando stavolta a qualsiasi intervento esterno (niente Stuart Gordon, né il già citato Jackson, che temiamo sarà assente dai solchi del vecchio amico per un bel po’): voce, chitarre elettriche ed acustiche, piano e tastiere, basso ed una scarna e sgraziata batteria tutti appannaggio del nostro navigato one-man-band, che comunque non è certo nuovo a questi cimenti polistrumentistici.
E’ difficile descrivere in modo obiettivo un nuovo lavoro di Hammill, non tanto perché la sua musica rifugge la catalogazione quanto a causa di un senso di familiarità causato dal volume torrenziale delle sue produzioni; una sterminata discografia che quasi impedisce a chi ne è al corrente una visione distaccata che possa essere d’aiuto a chi vorrebbe invece avvicinarsi all’artista per la prima volta. Si rischia di etichettare un’opera come Singularity come “l’ennesimo album di questo strano cantautore dalla voce eccentrica”, ignorando gli elementi di novità che invece sono sempre presenti e si palesano dopo una manciata di ascolti un po’ più attenti, tanto da lasciare l’impressione di avere a che fare con una delle sue prove migliori degli ultimi due decenni.
Decido quindi di scomporre la recensione in due parti, sperando che in questo modo possa essere utile come guida ad entrambe le categorie di ascoltatori.
Per chi si accosta a Peter Hammill per la prima volta (o quasi). Non cercate in Singularity le suggestioni sepolcrali e apocalittiche dei Van der Graaf Generator: la produzione solista di Hammill, specie quella posteriore agli anni ‘80, si concentra liricamente nella continua analisi dell’esistenza umana non più in forma di magniloquenti ed epiche allegorie, ma piuttosto adoperando scenari suggeriti dalla disamina delle relazioni interpersonali, dell’incomunicabilità e dell’inadeguatezza del linguaggio umano, del significato del passaggio del tempo fino ad arrivare ad amare e ciniche considerazioni sui paradossi del mondo in cui stiamo vivendo.
Musicalmente, la proposta si basa su brani in un formato canzone piuttosto obliquo, in cui la voce di Peter - capace di passare in breve tempo dal tono più roco a bisbigli in falsetto – si dispiega su un accompagnamento di chitarra elettrica dal timbro sporco e primitivo, altrove su arpeggi di un pianoforte totalmente privo di virtuosismi od usato in modo percussivo, altre volte infine su accordi di una chitarra acustica essenziale ed asciutta. La ripetizione è un’altra componente spesso presente nei brani, che non sempre paiono essere costruiti per risultare piacevoli all’orecchio: l’arte di Peter Hammill può essere sia il martello che batte per il mondo che lo specchio per rifletterlo.
Per chi segue la carriera di Peter Hammill. Un album che segue la linea intrapresa da Peter alla fine degli anni ’80 con album come “Out of Water”, ma stavolta influenzato dal periodo Charisma (alla cui rimasterizzazione il nostro si è dedicato – non a caso – proprio negli ultimi mesi) e, complice forse l’assenza del violino di Gordon, meno legato ai recenti schemi arrangiativi ormai un po’ logori. Insomma, il fatto di doversela cavare totalmente in solitudine ha giovato ad Hammill, che nell’arco dei nove brani riesce a diversificare il discorso, non scivolando mai nella piattezza che ha penalizzato alcuni degli album più recenti come “None of the Above” o “Everyone you Hold”.
Abbiamo così episodi come “Event horizon” (descrizione in prima persona di una “near death experience”, ricordiamo che Peter è reduce da un infarto…) e “Naked to the flame” che ci riportano verso le atmosfere un po’ claustrofobiche di “pH7”, l’inquietante sperimentazione di una non-canzone come “White dot” capace di spiazzare chi immaginava di aver a che fare con il lavoro rassicurante di un artista di mezza età, e che invece prima si crogiola nella dissonanza di “Vainglorious boy” ma non rinuncia poi alla dolcezza con la sentita e struggente “Meanwile my mother”, distillato di malinconia autunnale, ed il pianoforte doloroso di “Friday afternoon”.
In definitiva, il terzo lavoro di un’ideale triade “concettuale” (completata da “Clutch”, registrato con sole chitarre ed “Incoherence”, in forma di suite unica) ed il terzo lavoro di fila artisticamente ineccepibile: non male per un canuto cinquantottenne il cui back-catalogue è tanto voluminoso quanto intriso di coerenza ed integrità artistica ed intellettuale.

 

Mauro Ranchicchio

Collegamenti ad altre recensioni

PETER HAMMILL Incoherence 2004 
PETER HAMMILL Veracious 2006 
PETER HAMMILL Thin air 2009 
VAN DER GRAAF GENERATOR Present 2005 
VAN DER GRAAF GENERATOR Present 2005 
VAN DER GRAAF GENERATOR Trisector 2008 
VAN DER GRAAF GENERATOR A grounding in numbers 2011 
VAN DER GRAAF GENERATOR Alt 2012 
VAN DER GRAAF GENERATOR Recorded live in concert at Metropolis Studios, London 2012 
VAN DER GRAAF GENERATOR Merlin atmos 2015 

Italian
English