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HEYLEL Shades of time Interstellar Cloud 2017 POR

E’ un gruppo dalle due anime quello dei portoghesi Heylel: da un lato c’è quella che abbina melodia ed un velo di tristezza, dall’altro quella più impetuosa, caratterizzata da sonorità molto potenti ed un’irruenza di fondo dettata dalla chitarra elettrica e da una sezione ritmica in grado di infondere grande energia. Al centro di questo progetto troviamo il chitarrista, tastierista e compositore Narciso Monteiro, che, affiancato dal bassista Joao Amorim, dal batterista Ricardo Teixeira, dalla violinista Ana Clérigo e da vari ospiti per le parti vocali, ha scritto una serie di interessanti brani che hanno dato vita al terzo album della band, intitolato “Shades of time” e pubblicato nel 2017.
La partenza affidata alla strumentale “Lost childhood” presenta un andamento delicato e malinconico, con gli arpeggi di chitarra acustica ad aprire elegantemente e l’entrata del violino e del basso che determinano un rafforzamento della componente elegiaca. Verso i tre minuti e mezzo la sei corde elettrica e la batteria spingono fortemente verso un indurimento del sound, anche se la guida del violino si mantiene salda; curioso il finale affidato ad un carillon che più che una ninnananna sembra ispirare un film horror. Un bell’inizio, non c’è che dire ed è solo l’introduzione per una serie di brani articolati, in cui quelle anime di cui parlavamo in apertura di recensione si mostrano a volte insieme, a volte alternandosi. Così, se la title-track è una cavalcata prog-metal stemperata dai rallentamenti e da raffinatezze acustiche, ecco che incontriamo poi “The big runaway”, che parte come una ballata di classe e che poi dopo i quattro minuti cambia completamente registro orientandosi sul metal, per poi proseguire con una serie di variazioni ritmiche e di atmosfera. Gli Heylal fanno poi bella figura con una cover della crimsoniana “Fallen angel”; presentata un po’ rallentata e con voce femminile, fa davvero un piacevole effetto. Non del tutto riuscita, invece, la power ballad “Lost and found”. Va decisamente meglio con “You should have known”, uno dei pochi momenti che infonde serenità con i suoi tratti acustici. “Ghosts”, “Rollercoaster” e “On my deathbed”, alternano colori di mondi apparentemente diversi e creano quegli ibridi un po’ strani, derivanti da esplosioni fragorose che fanno pensare ai Dream Theater, soluzioni melodiche che sembrano uscite da dischi A.O.R., sensazioni dark che potrebbero appartenere agli scenari sonori gotici di The Gathering, My Dying Bride e Lacrimosa. In conclusione, infine, c’è “Le dernier troubadour”, un brano per sola chitarra acustica che fa scattare l’inevitabile parallelo con Steve Hackett ed Anthony Phillips.
Forse chi ha difficoltà ad ascoltare la componente metal in un disco da inserire nel filone prog potrà avere qualche remora ad avvicinarsi a “Shades of time”, disco non facilmente inquadrabile e che poco ha dei vari rami del progressive rock più “canonico”, per così dire. Siamo di fronte comunque ad un lavoro ben costruito, dalle dinamiche intriganti e particolari, con “stranezze” che fanno bell’effetto. Provate a dare un preascolto per vedere se può fare al caso vostro.



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Peppe Di Spirito

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