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HUBRIS Metempsychosis Art As Catharsis Records 2020 SVI

Terzo appuntamento per gli svizzeri Hubris, composti dai chitarristi Jonathan Hohl e Matthieu Grillet, dal batterista Nathan Gros e dal bassista Lucien Leclerc. Formatosi nel 2014, il quartetto di Friburgo è dedito a un post-rock in cui le atmosfere ambient giocano un ruolo preponderante, non a caso vengono citati i Sigur Ros tra i riferimenti per descrivere la loro proposta. In effetti risulta davvero arduo poter descrivere questo tipo di musica se non lo è mai sentito prima, perché tutto viene giocato sulle atmosfere e gli effetti che riempiono l’aria, priva com’è di assoli o anche semplici riff intesi nel senso convenzionale del termine. Peraltro, come il titolo di questa nuova pubblicazione suggerisce, le tematiche di fondo si fanno ancora più eteree, visto che il filo conduttore è la trasmigrazione delle anime, cioè proprio la “metempsicosi”. E allora l’ispirazione viene dai miti greci, traslati in sei corrispettive composizioni che portano ciascuna il nome di alcuni degli innumerevoli protagonisti di quella che è la ricchissima tradizione orale dell’epoca classica. Composizioni che vorrebbero quindi portare l’ascoltatore in un determinato mondo interiore, dove magari ognuno può rispecchiarsi e dare un contorno personale a quanto sta ascoltando.
Il primo pezzo è intitolato “Hepius”, vale a dire Esculapio, il figlio del dio Apollo, che come il padre era dedito alla medicina. È lui il domatore di serpenti caratterizzato nella costellazione dell’Ofiuco, ucciso da Zeus perché reo di aver insegnato agli uomini i segreti per vincere la morte e quindi poi apposto nel cielo stellato. Dopo, per intercessione dello stesso Apollo, una versione del mito vuole che proprio Zeus lo avrebbe riportato in vita e fatto diventare il dio della medicina vero e proprio. Una tematica che come si vede si sposa perfettamente con i propositi compositivi degli Hubris, che in musica si traduce in undici minuti molto melodici in cui le chitarre risuonano con i loro echi su differenti livelli e la batteria scandisce i tempi in maniera che risulti un elemento attivo nell’ascolto, nonostante sia impostata con cadenze ben precise. Dopo quattro minuti le stesse chitarre diventano più aggressive e quindi il pezzo subisce una decisiva sferzata. Diciamo che poi però la musica si trascina tra riverberi basati sempre sulla medesima melodia, quindi la composizione gioca sul principio di lasciarsi andare in una specie di sognante ipnosi. Beh, questi sono in pratica i parametri su cui si basa l’intero album. La seguente “Dyonisus”, legata anch’essa alla tematica della resurrezione dopo una morte violenta e ai conseguenti rituali misterici di iniziazione, sembra il preludio a qualcosa di più intenso che ha stavolta come riferimento la parte più ambient degli Ozric Tentacles o dei Korai Öröm, ma poi torna alla contemplazione simile alla traccia precedente, con la medesima impennata sentita in precedenza. C’è da dire che stavolta le chitarre si distinguono anche in ciò che è una sorta di approccio solista, anche se dura poco. Anche qui si sfiorano gli undici minuti e l’effetto è quello di una mareggiata che le cui onde hanno da tempo spezzato il proprio moto, trascinandosi stancamente verso la riva per poi tornare indietro e sparire senza energia apparente. Un procedere per inerzia, che continua esattamente nei nove minuti di “Adonis”; l’immancabile staffilata in cui l’aria si satura di energia ultraterrena arriva al quinto minuto, dove le chitarre si saturano e pare che addirittura vadano in distorsione. Una fase che oggettivamente diventa molto intensa, grazie anche al lavoro ritmico, per poi calare all’improvviso e quindi dare ancora più enfasi a quanto ascoltato poco prima.
“Icarus” e “Dedalus” sono legate tra loro – come il mito stesso sta ad indicare: padre e figlio fuggirono dal labirinto di Minosse – e la seconda composizione risulta il compimento della prima. Si chiude con “Heracles”, cioè il romanizzato Ercole, l’unico mortale a cui fu permesso avere accesso all’Olimpo. La traccia è idealmente divisa in dodici parti nell’arco di nove minuti, a rappresentare le altrettante fatiche affrontate in vita dall’eroe, ma stilisticamente non viene aggiunto nulla al modus operandi ascoltato fino a questo momento.
Se questo spirito di ricerca vuol essere annoverato tra i canoni del prog, può anche andar bene, nonostante di “rock progressivo” non vi sia praticamente nulla. Si tratta comunque di un’esplorazione e questo va riconosciuto, nonostante il genere in sé abbia già dei parametri veri e propri che i fan riconoscono ormai al volo, anche se spiegarli – come detto – risulta impresa piuttosto ardua. Qualora voleste chiudere gli occhi e rilassarvi, anche se poi saprete che piega prenderà la musica già dopo un primo ascolto, questi svizzeri potrebbero fare al caso vostro, i quali presentano comunque una buona produzione alle spalle. È di certo musica per la mente, gradevole, alla lunga un po’ ripetitiva.



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Michele Merenda

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