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HIMMELLEGEME Variola vera Karisma Records 2021 NOR

Dalle oscure ombre psichedeliche di Bergen, come annunciato nella cartella stampa, tornano gli Himmellegeme (“corpo celeste”), fautori di uno space rock moderno ed atmosferico che non rifugge da una certa parentela con il post-rock e con un rock elettronico più facilmente inquadrabile nel mainstream. Il lavoro precedente, “Myth of Earth” (2017) era stato apprezzato in particolar modo per l’interpretazione di Aleksander Vormestrand (voce e chitarra) e per le melodie intessute dal chitarrista solista Hein Alexander Olson, autori di tutti i brani. Con i loro riff pesanti, melodie sognanti e testi malinconici, i nostri cinque norvegesi tessono stavolta un album a tema, basato sulle conseguenze dell’impatto umano sul pianeta Terra, ovvero la “scia di distruzione che la nostra specie si lascia dietro ovunque essa vada”. Pur non rompendo decisamente con il passato, la band introduce nella sua tavolozza nuovi colori, spesso mutuati da esperienze così lontane da dare l’impressione che i brani non siano tutti attribuibili alla stessa entità, spiazzando a più riprese l’ascoltatore, iniettando nelle ritmiche un groove che in passato non si addiceva alla proposta.
Si parte con lo space rock ortodosso di “Shaping mirrors like smoke”, straniante con le sue chitarre saturate e la batteria indemoniata; i cori e la chitarra sono di chiara matrice floydiana. Si rallenta con “Heart listening”: qui la voce di Aleksander è ultraterrena, un po’ come sa essere quella di Thom Yorke in simili frangenti; il brano in fondo ha una struttura piuttosto tipica del rock alternativo, bello ma senza colpi di scena, un po’ in stile Porcupine Tree del periodo Stupid Dream, quando Steven Wilson era platealmente infatuato dei Radiohead. Le sorprese arrivano con “Blowing raspberries”, il “singolo” che esordisce come un brano qualsiasi dei Depeche Mode ma risente di influssi orientaleggianti beatlesiani, pur mantenendosi nei binari di un pop-rock orecchiabile; troviamo ancora riff di chitarra fuzzy e il basso di Erik Alfredsen in odor di funky. Le tastiere di Lauritz Isaksen sono utilizzate per conferire un’aura elettronica, senza mai prodursi in interventi solistici; certamente un brano che sarebbe risultato fuori luogo nel loro album precedente, più introspettivo e malinconico. In “Brother” le linee vocali languide e lo stesso timbro di Aleksander rievocano un po’ Jónsi dei Sigur Rós o Justin Vernon (Bon Iver), anche se il tocco della chitarra slide ci porta anche in direzione del folk alternativo di band statunitensi come Midlake o Other Lives: molto ariosa e suggestiva. “Let the mother burn” è un muro di suono in cui trovano spazio anche citazioni dei Pink Floyd (il piano trattato di Echoes?), rare oasi di pace in un magma di riff granitici (ma mai… metallici); meno riuscito un episodio come “Caligula”, un hard-blues elettronico in cui per seguire le orme dei Motorpsycho si finisce per assomigliare ai Muse più caciaroni. Al contrario, “Agafia”, cantata in norvegese, è stilisticamente un successo: chitarre cristalline e melodie ariose, con un tema sviluppato senza fretta, con un ammirabile senso dello spazio; mi sento di dire che questa è la dimensione che preferisco dei nostri multiformi Himmellegeme e che mi pare più naturale, sincera e nelle corde del gruppo. La title-track “Variola Vera” (nome latino per indicare il vaiolo), meditativa vignetta strumentale per chitarra acustica e piano, chiude l’album in tono minore.
Provando a ricapitolare le emozioni provate, mi sento di dire che l’album suona come il prodotto perfezionabile di una band coraggiosa e capace di seguire il proprio impulso creativo senza auto-confinarsi in un genere: c’è ancora da lavorare e non tutte le direzioni tentate mi paiono così appetibili, ma sono fiducioso che il tiro sarà aggiustato già con il prossimo lavoro.



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Mauro Ranchicchio

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