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ION SOURCE Down on the evolution scale autoprod. 2017 ITA

Tornano dopo quattro anni dall’esordio i marchigiani Ion Source, con mezza formazione rinnovata. Camilla Coccia, che si occupa anche delle tastiere (usate più che altro come riempimenti), ha preso il posto del bravo Giovanni Biagiola dietro il microfono; Luca Saja siede alla batteria, colmando così un ruolo che nella band era sempre stato provvisorio (come semplice curiosità: dallo stesso Saja viene citato nelle note di copertina una certo Andrea, definito “ghost-drummer”…). Confermati Marco Durpetti alla chitarra e Andrea Berardinelli al basso. Il gruppo, cui parte dei componenti ha militato in una prog-death metal band, traccia una sorta di concept basato sulla regressione evolutiva, il cui emblema è la distruzione del proprio mondo. A dire il vero si portano avanti due storie parallele: una che guarda in chiave pessimistica alla realtà vissuta nel concreto e un’altra proiettata in una dimensione idealizzata. Parallele che alla fine – nonostante tutto – sembrano destinate a scontrarsi, come dimostra l’ottima copertina creata da Carmine Di Camillo, in cui la copia stilizzata di un umanoide proveniente dal mondo ideale infrange la barriera e prende per la gola il suo alter-ego in questa realtà di distruzione. Sarà infine lui quello che di spalle viene visto tornare tra la natura incontaminata?
Nella precedente uscita non c’era poi tutto questo prog, lo si era detto; stavolta sembra che si sia fatto qualche passo in più verso un certo tipo di struttura “progressiva”, soprattutto grazie alla buona prova della sezione ritmica ed il tentativo in alcuni pezzi di percorrere soluzioni inusuali. “Kali Yuga” è un pezzo di alternative che sfrutta le dissonanze del genere citato per ricreare sonorità simil-indiane, con corposi suoni hard. Il brano si fa portatore del concept in sé e per sé, ripetendo più volte il titolo dell’album nella fase finale e declamando la situazione di “oscura ignoranza” in cui si sta vivendo. “Burning Bright”, nella prima parte, potrebbe essere un pezzo dei Radiohead in versione femminile, andando poi a confluire in un assolo evocativo nel suo incedere irregolare. “Uncharted Sea”, col suo giro di basso continuo, parte tipo “Kali Yuga” e poi si evolve in un intenso hard-blues dove la voce femminile fa la differenza, ricordando Cinzia Catalucci degli Old Rock City Orchestra. Qui c’è però più ricerca dell’atmosfera, come può testimoniare l’assolo di chitarra – un incrocio tra Pink Floyd e i Full Moon di “Sunset Jazz” dall’album “Euphoria” (1992) – accompagnato dalle acrobazie nervose della sezione ritmica. “Indifference of a wealthy life” è invece malinconica fin dalle primissime note suonate con la chitarra acustica, attraversata poi da echi elettrici che terminano in una dimensione quasi cinematografica (versante serie televisiva impegnata). A seguire “Climax”, che come da titolo va aumentando di intensità, diventando quasi urlata, vocalmente dissonante.
Sono tutti dei buoni momenti, individuabili anche in “Take your own soma”, visionaria, dalla sezione centrale dura, cantata con soluzioni che non chiudono mai il cerchio in maniera armonica e che lasciano sempre in sospeso, in attesa che lo si faccia nel prossimo giro; la tanto decantata sezione ritmica dà di volta in volta varietà e connotazione al pezzo, mentre la chitarra si lascia andare ad un assolo anche stavolta irregolare ma comunque sempre convincente. Alla lunga, però, la voce diventa troppo ripetitiva. “Revealed consciences” è più da atmosfera, portatrice di quell’universo parallelo in cui vivono i nostri cloni, oltre l’abisso e lo specchio distorto in cui viviamo. Si chiude con il testo drammatico di “The hive”, tra scricchiolii, rumore del mare e di insetti, per un’apertura quasi floydiana che poi tornerà all’elettrica durezza.
Occorre dire che i miglioramenti ci sono stati e la proposta per molti tratti è convincente. Nell’ultima parte, però, si tende ad adagiarsi e a ripetere soliti schemi, rendendo meno interessante l’ascolto rispetto ai pezzi centrali. Probabilmente si è trattato anche di dover assecondare l’andazzo della storia, che comunque poteva essere impostata in maniera più completa. Se questa sarà la formazione definitiva, su cui poter puntare per il consolidamento stilistico, rimane un punto interrogativo. Glielo si augura, perché le capacità individuali ci sono.



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Michele Merenda

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