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JUICE OH YEAH Juice oh yeah Addicted Label 2020 RUS

Qui abbiamo un duo proveniente da San Pietroburgo, formato nel 2012 da due componenti dei The Flash Fever, vale a dire da Boris Shulman sia alla voce che (soprattutto) al fretless bass e Sviatoslav Lobanov, che prima era un chitarrista e in questa sede si accomoda invece alla batteria. È un approccio che vuole guardare con ironia allo stoner-rock, allontanandosi anche dal groove che ha caratterizzato la band madre, portando poi all’esordio della nuova formula nel 2013. Dopo il tour dell’anno seguente, si è cominciato a lavorare su questo secondo album, che di per sé suona abbastanza lontano dai classici parametri prog e risulta anche abbastanza forzato volercelo accostare. L’iniziale “Rels” è quanto di più lontano possa esserci, caratterizzata da un continuo pestare ossessivo, che però – grazie a strane combinazioni –, a tratti, finisce per ricordare l’inizio quasi mantrico della famosa “Master Builder” dei Gong. Lo si specifica e ribadisce: solo a tratti!
Qualcosa di diverso accade però nei sei minuti e mezzo della successiva “Dnaa”; non è dato sapere se tramite sintetizzatori e altre diavolerie da studio di registrazione il basso fretless “impersoni” altri strumenti oppure si adotti davvero un’altra strumentazione (dalle note di copertina non si direbbe), fatto sta che si sente qualcosa tipo una specie di arpa. Questo, assieme alle note di basso distorto e ad una batteria suonata stavolta in modo sapiente, crea un’atmosfera simil-orientale. Poi si esplode nella psichedelia più corrosiva, diluita però ancora da questo suono di arpa e da quello di un trombone. In queste pubblicazioni è davvero difficile capirci qualcosa, in quanto vengono dati riferimenti assolutamente sballati (ma lo faranno apposta?!); sempre nelle note di copertina si dice che nel 2018 – causa la complessità dei brani – si è usufruito del lavoro del batterista Alexander Markov, anche lui proveniente dai The Flash Fever, consentendo così a Lobanov di passare a trombone e sintetizzatori. Sarà quindi accaduto questo nel pezzo appena esaminato? Il dubbio sorge spontaneo perché, da quanto si legge sul retro del CD, i due musicisti dovrebbero essere gli unici a suonare e ad incidere tutto con i propri strumenti di partenza. Qualcuno ci capisce forse qualcosa?...
Nel frattempo, si è arrivati a “Mane”, che con i suoi dodici minuti merita di essere seguita fin dall’inizio, con cui si guarda ad un ambient che però risulta vivo e non certamente così rilassato. Poi la musica si fa più rarefatta, ricreando con vocalizzi allucinati e strumenti a corda un’oppiacea atmosfera mediorientale. Il passaggio energico (quasi crimsoniano) è repentino, richiamando nuovamente l’uso discreto del trombone. Una breve interruzione, prima di ricominciare con un andamento duro e cadenzato, preludio all’ultima parte basata sul basso che suona inesorabile come una condanna, per poi frapporre parti di chitarra (reali o sintetizzate?). Forti le rullate finali di batteria, su questa suggestione orientale che sembra voler riemergere dalla durezza intrapresa. “Poleno” sfiora gli otto minuti e lo stile sembra ormai tracciato. La voce in falsetto viene effettata e quando comincia le proprie battute potrebbe persino passare per il principio di una fase d’armonica. Anche qui, sapiente e misurato inserimento dei fiati; ogni tanto si sente anche qualcosa somigliante ad un pianoforte (che sia il basso accordato su una particolare tonalità?). Dopo tre minuti la valvola dell’energia repressa viene lasciata andare e il riferimento – mentre la voce risuona più acuta e stravolta che mai – diventa quello ovvio dei Black Sabbath. Il basso in stile Geezer Butler suona più distorto e prepotente che mai, accompagnato prima dai fiati e poi lasciato per alcuni attimi risuonare da solo come una campana a morto, prima del finale caotico. Quasi stessa durata per la conclusiva “Vnyz”, che sembra confermare la simpatia dei nostri per le ambientazioni orientali. Sono solo però momenti studiati per far sobbalzare, perché durezza e distorsione sabbathiana irrompono senza riguardo per poi ritirarsi con la medesima repentinità. Poi, il caos diviene quasi religioso grazie a dei cori che cavalcano i sali e scendi fino alla fine.
Il primo ascolto non era stato per nulla positivo. La seconda volta, invece, è cambiato qualcosa. Come detto, la proposta non può essere definita con i classici parametri del prog-rock a cui si è normalmente abituati e chi disprezza apertamente le “abrasioni” stoner se ne terrà debitamente alla larga, senza perdere occasione di emettere imprecazioni varie. Ma di sicuro qui si è voluto andare oltre e allargare i propri orizzonti, creando qualcosa di differente rispetto al punto da cui si era partiti. Il discorso può quindi farsi interessante, soprattutto se qualcun altro suonasse stabilmente con i due protagonisti e aggiungesse quindi ulteriore strumentazione.



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Michele Merenda

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