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KROBAK Little victories Mals 2013 UKR

Così come gli Arlekin erano il frutto dell’infatuazione del polistrumentista ucraino Igor Sidorenko per il New Prog inglese, alla stessa maniera i Krobak riflettono il suo interesse verso la cosiddetta scena post rock. Nel 2006 i Godspeed You! Black Emperor rappresentavano il suo principale punto di riferimento così come nel 2005 lo erano i Marillion di Fish. E’ sorprendente come questo artista riesca a voltare pagina così celermente passando con disinvoltura da un progetto all’altro, e questi qui che ho citato rappresentano solo una piccola parte del suo curriculum musicale che si apre molto presto, alla tenera età di tredici anni, e che comprende, vale la pena ricordarlo, anche gli album pubblicati con gli Stoned Jesus ed i Voida. Al loro esordio discografico, avvenuto nel 2007 con “Structura Tortura”, uno split CD condiviso con i Krikston, autoprodotto con tiratura limitata ad appena 33 copie, i Krobak erano una one-man-band. All’epoca del primo full length, “The Diary of the Missed One”, pubblicato l’anno successivo dalla Cardiowave, Sidorenko continua a tenere ben salde, da solo, le redini del suo progetto. Il discorso è diverso per questo nuovo album, in occasione del quale è stata messa in piedi una line-up completa che comprende, oltre al leader che ormai ben conosciamo, alle prese con le chitarre, Natasha Pirogova alla batteria, Asya Makarova al basso e Marko Nikolyuk al violino. Anche la proposta musicale è stata elaborata e prodotta con molta attenzione, partendo da influenze ben riconoscibili, in primis quelle dei Godspeed You! Black Emperor come si possono apprezzare in album come “Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven”, convogliate però in uno stile più rassicurante e prevedibile, con pochi elementi in gioco ma strutturati al meglio.
I quattro brani di questo lungo EP, ai quali si aggiunge anche una nuova versione di “Amnesia” (brano inizialmente edito nel sopracitato split album) per un totale di cinquanta minuti, giocano molto sulle piccole variazioni, sulle ripetizioni, sull’affievolirsi o il tenue intensificarsi dell’intensità di esecuzione, passando da disegni musicali flebili e docili, con il violino, a volte classicheggiante, che risalta in modo brillante, a momenti in cui gli umori si incupiscono con la complicità di riff di chitarra scuri e sordi. I ritmi sono sempre cadenzati ed essenziali, tali da garantire un flusso regolare di sensazioni in prevalenza piacevoli, controllate e mai esasperate. Il minimalismo e la grazia di “And There by the River I Lost My Glasses”, con gli archi che quasi mimano elementi musicali orientali, mi hanno fatto pensare a Wim Maertens o ai Japan. La musica è meditativa ed avvolgente, increspata appena da chitarre ruvide e distorte che, quando alla fine si ritraggono, fanno riemergere alla luce trame incredibilmente delicate e squisite. “Last Days of Summer” lascia intravedere qualche tocco di goticità, soprattutto quando, a tratti, la musica si appesantisce. “Broken (Are Little Victories by the Ship of Life)” si trascina invece un po’ pesantemente, con i motivi celestiali del violino che si stagliano su un fondale caliginoso, aprendosi lentamente in ampie volute. “It’s Snowing Like It’s the End of the World” entra i punta di piedi nei nostri padiglioni auricolari, insinuandosi con poche esili note, disegnate con morbido tratto dalla chitarra indugiante, eterea, ovattata e distante. Col tempo l’atmosfera, all’inizio incerta e distesa, diviene come una cappa che grava plumbea sull’animo dell’ascoltatore, con un lieve tormento, continuo e costante. La chitarra con un cupo ronzio si trascina lentamente e con intensità crescente, ecco poi il sovrapporsi degli altri strumenti che genera una specie di rumore di fondo sul quale il violino si agita in spirali di suoni dal fascino gotico. Anche nella conclusiva “Amnesia”, riadattata in modo tale da apparire sulla stessa lunghezza d’onda dell’intero album, i suoni sembrano giungerci da lontano, lungo direzioni che riusciamo ad intuire con difficoltà. Il brano è ripetitivo, a tratti leggermente e volutamente disturbante, i suoni sordi ed ossessionanti. La musica, appiattita, finisce col destrutturarsi gradualmente fra i fruscii dei piatti, ronzii e suoni striduli. Ma all’improvviso, come a voler medicare le ferite inferte dal trauma acustico appena subito, essa torna dolce ed avvolgente, assumendo tonalità gradevoli e positive anche sul finale, più sostenuto.
Direi che la bellezza di questo album sta nella sua capacità di materializzare scenari emotivi suggestivi, utilizzando tratti sonori essenziali, semplici e, volendo, abbastanza spogli. Che i Krobak abbiano realizzato le prime documentate creazioni discografiche catalogabili nel sottoinsieme del post-rock nel loro paese può rappresentare soltanto una annotazione da guinnesd dei primati che non scuserebbe eventuali fallimenti o pecche, ciò che importa davvero è che questo disco, discretamente prodotto, ben ideato, sincero e senza grosse pretese, riesca a dipingere, nel suo piccolo, sensazioni sonore piacevolmente persistenti per il nostro udito e la nostra sensibilità.


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Jessica Attene

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