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KARIBOW From here to the impossible Progressive Prmotion Records 2017 GER

Ecco un’altra di quelle proposte della Progressive Promotion Records che vede impegnate un po’ di stelline dell’attuale scena new-prog, pronte per l’occasione a dare una mano alla “creatura” del cantante e polistrumentista Oliver Rusing denominata Karibow. Questo progetto fu messo in piedi già verso la fine degli anni ’90 ed è andato avanti con una certa costanza, al punto che nella discografia, tra album, EP, antologie e colonne sonore, si è arrivati oggi ad una quindicina di titoli. Dicevamo che in questo nuovo cd Rusing si avvale della collaborazione di un bel po’ di personaggi molto apprezzati nel panorama new-prog, a partire dal connazionale Marek Arnold (che ha legato il suo nome, tra gli altri, a Seven Steps to the Green Door, Toxic Smile e Cyril) e passando per Monique van der Kolk (vocalist degli spagnoli Harvest), Jim Gilmour dei Saga e membri degli Unitopia. “From here to the impossible” è un concept-album di quasi settantadue minuti, suddiviso in cinque parti, che è incentrato sulle difficoltà dell’essere umano nell’affrontare i propri limiti.
L’incipit “Here” mette subito abbastanza in chiaro le cose, con sei minuti e mezzo di new-prog all’inglese pronto a mescolarsi alla potenza e all’orecchiabilità dell’A.O.R., abbinando melodie immediate e passaggi strumentali di una certa intensità, su ritmi spediti. A seguire altre dieci tracce, che viaggiano tra soluzioni molto classiche, un po’ à la Pendragon, un po’ vicine ai Magenta e ai vari progetti di Robert Reed, ma senza mai perdere un tocco “americano” (“My time of your life”, “Inside you”, “Black air”, la cavalcata finale “The impossible”), ad altre più vicine ad un sound caro a gruppi del calibro di Saga, Styx e Boston (“Never last”, “Lost peace”, “A crescent man”). Non poteva mancare qualche strizzatina d’occhio vicina ad un classico prog-metal, avvertibile soprattutto in “Passion” e “System of a dream”, momenti in cui le chitarre ruggiscono di più e si incrociano con tastiere che stemperano le asperità con un andamento sinfonico. Più curioso il breve tassello “Requiem”, posto praticamente a metà del disco e portato avanti da piacevoli orchestrazioni classicheggianti.
Andando a tirare le somme si possono vedere alcune note liete, a partire dai bei livelli di registrazione e produzione, che permettono suoni molto limpidi, caratteristica importante per un disco del genere. Nulla da dire, inoltre, da un punto di vista formale, le varie composizioni sono ben costruite e i musicisti che hanno partecipato contribuiscono a far raggiungere un buon livello di professionalità. Analizzando la sostanza, però, c’è da dire che mancano quei guizzi che permetterebbero un bel balzo verso l’alto della qualità e non si riesce quindi ad andare oltre delle medie non elevatissime di tanti simili prodotti che vengono pubblicati oggigiorno.



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Peppe Di Spirito

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