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BEN LEVIN GROUP Pulse of a nation autoprod. 2010 USA

Ben Levin è un chitarrista americano. Con il suo Group è alla seconda uscita, dopo l’esordio del 2009. parlare ai giorni nostri di chitarrista americano porta automaticamente a pensare o al jazz rock fusion o al metal, magari di indirizzo dreamteathriano. In effetti, per Ben levin, la cosa ha assieme entrambi gli aspetti e le due facce convivono in una proposta piuttosto trasversale, dove in più si aggiungono parti di blanda avanguardia e di pacato sperimentalismo, con l’inserimento di noise, ma anche di atmosfere industrial metal, brutal, math e altre persino di soffusa fusion sinfonica. Così nei quaranta/ottanta minuti di musica (questa è da spiegare, lo so) convivono parti che cozzano in maniera persino fastidiosa tra loro. Mettendo il CD nel lettore verrebbero fuori nove brani con un’opener di ben 41 minuti. In realtà gli otto brani successivi contengono la stessa musica della mega suite, semplicemente separata in tracce. Scelta un po’ strana ma, di fatto, la musica originale prende solo la metà della durata complessiva e lascia all’ascoltatore la possibilità di bearsi della sua proposta in maniera continuativa o separata. Atipica è anche la formazione che oltre al chitarrista, che ovviamente domina su tutto, troviamo il violino di Chris Baum, le tastiere di Josh Friedman, il violoncello di Kira Meade, la batteria di Tyler LeVander, il basso di Mike Ball. Poi c’è un ulteriore elemento tale Josh Wood che si occupa di percussioni elettroniche suonate però con le mani, chessò potrebbero trattarsi di una specie di pad elettronici, percossi con le stesse mani che volentieri gli taglierei, vista la qualità di ciò che esce, forse più adatta ad un disco di thecno-pop che a qualcosa che interessi a noi poveri progster.
L’unica nota del libretto parla di un “piece of music” che tratta dell’ultimo istante del genere umano, che nasce con una violenta furia e finisce in un abbraccio. La nota è importante per lo sviluppo sonoro del brano perché è ben inteso che la diversa tipologia musicale dovrebbe essere la colonna sonora di quest’ultimo istante. Vediamo quindi questo sviluppo.
L’opera si apre con un lungo preambolo con voce narrante su fondo floydiano (bella novità eh?), presente, credo per motivi di spazio, solo nella suite intera e non nelle tracce separate. Poi c’è “Overture”: chitarre distorte, ritmi secchi e potenti, quelle cacchio di percussioni a mano, che però si riscatta sul finale con un soffuso ed etereo paesaggio di pianoforte, brevi momenti che portano, via, via a movimenti un po’ orientaleggianti, i ritmi sono sempre molto hard e nel sottofondo un pianoforte che sembra rubacchiato da “Anyway” dei Genesis, qualche passaggio buono: il violino a metà brano, un paio di crescendo e qualche break niente male, ma prevalentemente viaggiamo sulla pochezza. Poi arriva la terrificante “Pulse”. L’aver “infilato” una traccia di questo tipo, presumo, spero, abbia una qualche attinenza alla narrazione, perché il brano è in completa distorsione, è un’accozzaglia math-core con testo urlato, distorto e gracchiante, in una parola sola: fastidioso, per fortuna è abbastanza breve, meno di due minuti e mezzo. Attenzione che quando parlo di distorto non intendo chitarre con effetto di distorsione, intendo che la traccia è proprio distorta, fuori scala. Non male la traccia successiva, la medio lunga “Ill from the poison of yor loving” un po’ jazzata e un po’ crimsoniana, abbastanza movimentata e ricercata, pur piena di già sentiti. Poi le cose migliorano e troviamo parti nettamente più piacevoli: “Sleep” giocata tra piano, elettroacustica e violini, anche qui il ritmo hard e secco della seconda parte non aiuta, ma concettualmente si eleva su tutto il resto, specie sui successivi movimenti e tralasciamo la cacofonica noise industrial “Catacomb” a cui seguono due cose abbastanza buone: “Braintree” e la conclusiva “We deteriorate - We thrive”. Non stiamo parlando di brani capolavoro, ma certamente più interessanti per l’aspetto prog grazie i loro movimenti cangianti e con buone parti dominate dagli archi, meno secche e meno metalliche. Sul finire torna la voce narrante e arriva un coro tetro e pesantuccio che chiude le danze. Poteva andarci peggio: ad esempio doverlo ascoltare sotto la pioggia.


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Roberto Vanali

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