|
LANTINOR |
Ensign of fairies - book one |
Mals |
2013 |
RUS |
|
Ricostruire la storia di questo gruppo, che parte dall’ormai lontano 1992 dalle ceneri dell’esperienza scolastica dei Wild West a Barnaul, nel sud-ovest della Siberia, non è semplicissimo. Sappiamo per certo che i Lantinor, il cui elemento costante è il chitarrista Alexander Kaminsky, hanno attraversato numerosi cambi di formazione e trasformazioni stilistiche che li hanno portati gradualmente dal grezzo hard rock degli albori al corrente prog sinfonico dalle tenui colorazioni folk. L’esordio discografico risale al 1996 con “Chronicle Lantinora. 1 era”, album che svela già da subito l’amore per il genere fantasy, ma dal 1997 al 2005 i Lantinor, così come erano all’inizio, in pratica non esistono più. C’è solo il leader che nel suo home studio ha provveduto a registrare, assieme a dei session men, una serie di album, apparendo occasionalmente alla radio con le versioni acustiche delle sue canzoni. Nella discografia si susseguono così "Tales of the forest" (2001), "The Symphony of the nine planets" (2004), "Annals of Lantinora. 2 era" (2004) e "Comrade" (2005). Dal 2005 il gruppo riprende forma e suona regolarmente partecipando a diversi festival e inizia poi a comporre il materiale che entra a far parte dell’album “Book of Spells”, pubblicato nel 2008 e concepito questa volta come frutto di un lavoro collettivo che porta a un notevole salto di qualità. A questo segue, nel 2009, “Last Wonder of the World”, scritto da Kaminsky in collaborazione col poeta e cantante Dmitry Malyshkin nei ritagli di tempo e che torna ad una formula più semplice e spensierata. Arriviamo quindi ai nostri giorni ed il CD in esame è il primo di due volumi già interamente registrati nel dicembre del 2012. Si tratta di un concept che trae ispirazione dai lavori letterari fantascientifici del celebre paleontologo sovietico Ivan Efremov e dalla sua idea di società ipercivilizzata del futuro. Si parla per la precisione della venuta sulla Terra di una quarta razza umana dai grandi poteri tecnologici e spirituali, custode da secoli del cosiddetto "Ensign of Fairies", un artefatto extraterrestre simbolo di potere. Al termine della terza era di dominio, circa un milione di anni dalla comparsa del primo uomo della quarta razza, l’artefatto viene venduto ad un clan ostile e l’emergente quinta razza trascina l’umanità verso una guerra mondiale ed il declino spirituale della società. I testi in russo purtroppo non ci permettono di seguire le vicende nel dettaglio ma la musica si presenta comunque abbastanza pittoresca da stimolare a sufficienza la fantasia dell’ascoltatore. Vi è una coloratissima accozzaglia di influenze, accostate forse in modo un po’ naïf, ma l’effetto complessivo è spontaneo ed interessante. Forse perché questi suoni nient’affatto tirati a lucido mi fanno pensare a un’epoca in cui in Russia i giovani gruppi emergenti registravano clandestinamente su nastro e si esibivano per un pubblico ristretto nelle cantine. La performance stessa di Alexander Kaminsky ricorda un po’ quella del più celebre leader degli Aqvarium, Boris Grebenshchikov, o per lo meno ricalca il suo stile cantautoriale. Gli stessi elementi hard rockeggianti che qua e là affiorano ricordano anch’essi il gruppo appena nominato ma anche gli Avtograf, quando questi si mescolano ad elementi sinfonici. In questa matrice semplice e coloratissima emergono suggestioni folk che qua e là potrebbero farci venire in mente i Gryphon ma anche Gentle Giant, Yes o Jethro Tull, ma si tratta sempre di rapidi déjà-vu che stranamente non hanno niente a che fare con i numerosi gruppi clone che spopolano alle latitudini più vicine a noi. Magari leggendo questi nomi vi potreste creare un certo tipo di aspettative ma tenete presente che l’approccio è sempre molto spontaneo e grezzo: chi conosce i gruppi sovietici che ho citato sopra potrà farsi un’idea più precisa su cosa aspettarsi. Nonostante la struttura complessa dell’album, che è costituito in pratica da una grossa suite eponima inframmezzata da un breve intermezzo, non vi è in realtà nulla di epico e di arzigogolato. Spesso gli spartiti si semplificano e la musica va avanti in modo un po’ sconnesso e poco fluido, soprattutto quando prevale il verboso cantato ma sicuramente il risultato complessivo è insolito ed anche abbastanza originale tanto che non vi rimarrà difficile in fin dei conti sorvolare sulle tante piccole ingenuità che popolano quest’opera. Molto graziosi ed incantati sono gli inserti vocali di Alina Bulat che forse avrebbe meritato maggiore spazio; il suo canto si va quindi ad aggiungere a questo bizzarro mosaico assieme a tante altre stravaganze. Se siete abituati alla musica patinata questo album non farà al caso vostro ma se siete delle persone curiose, o meglio ancora, se vi piace certa roba sovietica, allora qui potreste divertirvi sul serio.
|
Jessica Attene
|