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LAMANAÏF |
L’uomo infinito |
Lizard |
2012 |
ITA |
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Lamanaïf, progetto artistico nato nel mondo universitario di Padova nel 2008, grazie all’incontro tra alcuni studenti-musicisti che hanno iniziato a riflettere sull’esistenza di un vuoto sociale da riempire con la musica, strumento di comunicazione ritenuto (nonostante tutto) potentissimo. Dopo un paio di EP, i ragazzi esordiscono nel 2012 con “L’uomo infinito”, opera in sé parecchio ambiziosa. Sotto tutti i punti di vista. La confezione si presenta extra deluxe, come se fosse un DVD, con un libretto interno molto curato, quasi sul modello di quelli dell’Opera. Foto in posti a loro modo suggestivi, contrastanti, inquietanti, accompagnate da testi che fanno il paio con le immagini. Un lavoro composto da scelte coraggiose oltremisura, come quella di cantare le proprie alienate ed introspettive visioni rigorosamente in italiano, lingua poetica per antonomasia che però si adatta in maniera assai strana a certe partiture musicali… Ed il risultato, infatti, è ancora più spiazzante; come hanno scritto in tanti, risulta difficile venirne a capo dopo solo un ascolto. Siamo ai limiti del prog-metal, pregno di contenuti espressivi violentemente (quasi) hardcore. L’intento dichiarato è quello di offrire una “lama intellettuale” con cui poter aprire la propria mente e quindi far scorrere il marasma sonoro. Ci sono frasi poste in apertura molto ad effetto, che non si sa – come al solito – se siano solo parole messe sapientemente l’una accanto all’altra per fare scena oppure si tratti di reali e convinte visioni che i musicisti riescono solo di sfuggita a gettare su carta. Resta il fatto che questo progetto vuole essere anche trasposto in forma teatrale e quindi l’intera connotazione muta completamente. L’iconografia è dominata da questo uomo che porta sempre la maschera nello stile del film di Stanley Kubrick “Eyes wide shut” con Tom Cruise e Nicole Kidman (a proposito: sarà un caso che subito dopo i due si siano lasciati?!), pellicola basata su una ricerca di evasione morbosa, a sua volta scaturita dal dubbio che scavava dentro il protagonista. Sarà casuale, ma l’ostica proposta dei veneti sembra basarsi proprio sul leit-motiv di quella che è stata poi l’ultima opera del regista nato nel Bronx. Ma a questo punto il legame tra musica ed arte visiva si lega ancora di più (ricordate quelle singole note di pianoforte durante certe scene, che sembravano uno stillicidio?) e allora, chissà per quale motivo, viene in mente l’americano Copernicus. Anch'egli dava la sensazione di declamare da solo, magari in qualche teatro chiuso tanti anni fa, mentre lui se ne sta là a sfogare la propria frustrazione. Qui, però, sembrerebbe di trovarsi addirittura in una specie di reggia vuota, cosa che risuona decisamente più inquietante, soprattutto quando si esprimono concetti che toccano anche i lati più malati della psiche umana. La voce di Estebán Vidoz e potente, incisiva, tanto che in una band di puro prog-metal non avrebbe sfigurato affatto e le proprie arringhe esistenziali ed estreme si inerpicano lungo dei tour de force ritmici a cui devono cercar di dar forma la chitarra di Simone Bianco, il basso di Matteo Florian e la batteria di Simone Sossai. Tutti bravi, per carità, ma la proposta in sé pare comunque mettere in secondo piano le capacità di ognuno, fatta eccezione per la già citata voce. Non possiamo certo tirare in ballo realtà come quella degli Altare Thotemico, perché lì le parti vocali così bizzarre erano parte integrante dei “battiti musicali” ed i testi fortemente astratti erano a volte messi anche in disparte. Qui, forse, il riferimento nazionale più prossimo è quello dei Devil Doll (mezzi sloveni e mezzi veneti, guarda la casualità), anche se non c’è uno spiegamento di musica classica come invece capitava con la compagine inquietante di Mr. Doctor. In conclusione, è d’uopo mettere in guardia l’ascoltatore che all’inizio l’impatto non sarà esattamente piacevole. Poi, come già detto, le cose cambiano. Tra i pezzi bisogna citare “Girotondo”, che ha un respiro più ampio, “Puzzle!”, con metriche che ricordano alcune parti di “Life Cycle” dei tedeschi Sieges Even, e la più melodica “Insonne (Pavor Nocturnos)”. Ma anche “Magnolia” e “I/O”, che ha un incedere più da pezzo classicamente metal. Lo si ribadisce: verrebbe spontaneo liquidarli con un “tanti salute e grazie”, ma sarebbe profondamente ingiusto. Ascoltateli. E poi riascoltateli ancora. Solo a quel punto potrete cominciare a farvi un’idea. Forse parziale.
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Michele Merenda
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