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LONG EARTH |
The source |
Grand Tour Music |
2017 |
UK |
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La piccola galassia che gravita attorno agli scozzesi Abel Ganz si arricchisce di un’altra stella con questo nuova band che vede coinvolti musicisti provenienti da vari altri gruppi dell’area. In particolar modo i Long Earth sono stato fondati da Mike Baxter e Gord Mackie, quest’ultimo presente nel secondo album degli Abel Ganz (“Gullibles Travels” - 1985); a loro si sono poi aggiunti altri musicisti tra cui Ken Weir, batterista nei primi due album degli Abel Ganz stessi. La produzione dell’album è a cura di Hew Montgomery, lui stesso fondatore e figura storica dei Ganz prima e dei Grand Tour poi. “The Source” consta di 11 tracce per un totale di oltre un’ora di musica. La musica che i Long Earth ci propongono quindi con questo esordio non può essere così lontana da quello che ci si può aspettare da queste premesse… e difatti non lo è, anche se non si può parlare di new Prog tout-court, dato che comunque i vari musicisti, come detto, provengono anche da esperienze diverse e quindi le atmosfere tipiche di questo -chiamiamolo così- sottogenere sono stemperate in un rock soffuso e melodico, molto diluito, con ben poche impennate e qualche strizzatina d’occhio ad un pop elegante e d’annata (chiamiamolo pure brit-pop, tanto per tornare agli anni ’80 anche con questo termine). Il primo approccio che l’ascoltatore ha con la musica di quest’album può dare l’impressione di una musica annacquata e scialba che si trascina stancamente di traccia in traccia, senza impennate o sussulti. In realtà questa nuova stella, pur non risultando particolarmente brillante (e non che la galassia in cui è comparsa sia particolarmente rilucente, a dire il vero), non è proprio da disdegnare senza appello. Quanto meno una prova di riascolto è senz’altro dovuta e in questo modo ci rendiamo conto che l’ascolto scivola via abbastanza piacevolmente, tutto sommato, blanditi dalle accattivanti melodie ed armonie create dai cinque musicisti scozzesi. Le due suite presenti nell’album sono peraltro molto piacevoli da ascoltare, specialmente la seconda (“Ghosts”), con un fluire della musica piuttosto piacevole e una maggior varietà nelle colorazioni. Il problema principale di quest’album però sta proprio nella sua omogeneità: un’ora di musica che si trascina praticamente sulle stesse atmosfere, con un cantato costantemente uniforme anche se non sgradevole, si espone al rischio concreto di una pesantezza d’ascolto inesorabile che spinge spietatamente a premere il tasto eject.
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Alberto Nucci
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