|
LESOIR |
IV - Latitude |
Gentle Art Of Music |
2017 |
NL |
|
Al quarto album in studio, gli olandesi Lesoir provano a fare il salto di qualità. Per raggiungere l’obiettivo organizzano le cose a modo, riunendosi allo studio Sawmills di John Cornfield, produttore che ha legato il suo nome a quello dei Muse di “Absolution”. Coadiuvato da Bruce Soord (dei Pineapple Thief) dietro la consolle ha praticamente diretto il gruppo olandese curando ogni più piccolo dettaglio e donando a “IV -Latitude” una pulizia sonora tale da permettere di cogliere continuamente le finezze create dai musicisti e catturate da una registrazione di grande qualità. Elenchiamo velocemente la line-up che ha dato vita a questo disco e che è composta da un’accoppiata femminile, con Maartje Meessen (voce, flauto, piano) e Eleen Bartholomeus (voce, chitarre, tastiere, percissioni), dal chitarrista Ingo Dassen, da Ingo Jetten al basso e da Bob Van Heumen alla batteria. “Modern goddess” apre il disco con un sound elegiaco, in cui la fanno da padrone pianoforte e voce; poi, dopo poco più di un minuto, l’esplosione con l’entrata della sezione ritmica, che fa crescere intensità e volume. Si continua con questi saliscendi, abbelliti da tastiere sinfoniche, fino alla fine del brano. E’ un inizio che è molto indicativo della direzione in cui si vogliono muovere i Lesoir. In tutto l’album (ma possiamo dire anche in tutte le tracce) la band punta ad un suono particolarmente dinamico, in cui nulla è dato per scontato ed in cui si passa da un estremo all’altro, con variazioni musicali capaci di portare da lievi sussurri strumentali a potenti slanci carichi di aggressività, da melodie vocali particolarmente delicate ad acuti improvvisi e stordenti, da passaggi eredi di un certo romanticismo degli anni d’oro del prog a virate verso il rock duro o l’elettronica. Insomma, sembra proprio che la band abbia deciso di puntare a sorprese continue. Anche volendo citare dei singoli brani, diventa difficile trovarne qualcuno che identifichi bene il tipo di proposta che ci troviamo di fronte. Basti pensare a “In the game” e “Kissed by sunlight” che si rifanno a certo gothic dei connazionali The Gathering deviandolo verso territori molto più classicheggianti, o a “Icon” e “Cheap trade” in cui la spinta elettronica è molto forte, o, ancora, ad una “Eden’s garden” che parte in sordina, con venature pop e che poi spicca il volo con momenti maestosi in cui si incrociano tastiere orchestrali e sinfoniche ed una chitarra a dir poco ruggente. Altri pezzi mostrano, invece, una spinta melodica intrigante, magari non originalissima, ma che, similmente a quanto fatto da Paatos, White Willow e Quidam, trasmette piacevolissime sensazioni (vedi “In their eyes”, “Zeros and ones”). Insomma, “imprevedibilità” sembra essere la parola d’ordine, fino alla fine, con il breve tassello folk “Cradle song”. Dopo poco più di un’ora di musica sembra proprio che questa voglia di estremizzare le dinamiche sia allo stesso tempo il pregio e il difetto dell’album. Da un lato è sempre stuzzicante ascoltare con attenzione un lavoro così curato e ricco di variazioni che possono meravigliare non poco. A volte, però, il confine tra la meraviglia e lo sconcerto è labile. Così, il rovescio della medaglia è rappresentato dal fatto che portare all’esasperazione queste caratteristiche rende l’ascolto alla lunga un po’ stancante, con conseguente difficoltà di memorizzare la proposta dei Lesoir. Vorremmo anche premiarli con un giudizio nettamente positivo, ponendo l’accento sulle capacità della band di mettere insieme tanti tasselli con una certa fantasia e con discreta ispirazione, nonché evidenziare la qualità di un songwriting variegato e che denota preparazione di base, ma mettere un po’ più a fuoco la proposta e renderla un po’ più omogenea probabilmente gioverebbe non poco.
|
Peppe Di Spirito
|