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LIFESTREAM |
Alter echo |
Lizard Records |
2022 |
ITA |
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Un’uscita targata 2022 ma pubblicata effettivamente gli ultimissimi giorni dell’anno questo secondo lavoro dei pratesi Lifestream. L’esordio avvenne nel 2018 con “Diary”, un buon lavoro che metteva in mostra le buone potenzialità del gruppo le quali vengono confermate in questo nuovo lavoro. L’album è idealmente diviso in tre parti (EGO, OMNIS ed EGO, raggruppanti rispettivamente sei, cinque e due tracce) che narrano la storia di due mondi simili tra loro ma divisi dal tempo e dallo spazio; al termine della storia si rivelerà che il destino dei due pianeti è analogo e che entrambi sono stati resi inospitali dalla follia dei popoli che li abitavano. Il concept, fantascientifico e dai chiari riflessi filosofici, si snoda attraverso le 13 tracce dell’album, partendo dalla lunga (10 minuti) “Landscape of Loneliness” in cui la miscela di hard rock e new Prog dà forma ad atmosfere cariche di tensione e drammatiche. La musica, ricca di groove e di melodie e segue in modo efficace l’andamento della storia. “What Went Wrong” prosegue idealmente le mosse della prima canzone, con una buona carica di pathos che cattura efficacemente l’attenzione. La pausa semi-strumentale costituita dalla successiva “Habitat” ci fa un po’ tirare il fiato, scivolando poi languidamente nella successiva “The Long Way Home”, dai riflessi spacey e decisamente floydiani e con una buona prova vocale del batterista Paolo Tempesti (gli altri componenti dei Lifestream sono Alberto Vuolato -chitarre-, Andrea Franceschini -tastiere- e Andrea Cornuti -basso-). Si ritorna a volare con “Rebirth”, brano aperto dal ruggito di un organo Hammond (chissà se vero o no…) che si sviluppa su sonorità hard ‘70s, anche se non esasperate. Nel successivo strumentale “Cryosleep” le iniziali morbide note di piano che sul finale vengono riprodotte dai synth, chiudendo quindi il primo set di brani (EGO). La brevissima e misteriosa “Out of the Caves” dà l’avvio a OMNIS, passando, dopo nemmeno due minuti, il testimone a “Pillars of Creation”, brano nervoso e composito, con connotati tribali che si alternano a momenti rock tutt’altro che lineari. “Cradle Lullaby” e “Seasons Passing By” sono due brevi episodi quasi di passaggio; semi-acustico il primo, con caratteristiche da ballata medievale, suonato col solo pianoforte il secondo, con pochi effetti di contorno. “Losing Control” chiude questo gruppo di tracce, con intrecci vocali un po’ alla Gentle Giant che si muovono su un tappeto sonoro dai ritmi piuttosto concitati. L’ultima sezione, quella della consapevolezza e della disperata riflessione, inizia con “Awareness”, brano abbastanza tranquillo, dai toni quasi rassegnati. L’ultima traccia, la più lunga, coi suoi 11 minuti, è la title track, Prog sinfonico dalle ritmiche lente e dai toni cupi ed oscuri che chiude un album gradevole, ben realizzato, avvincente dall’inizio alla fine, senza veri e propri punti deboli, anche se forse manca il guizzo in più che possa far alzare il sopracciglio. Ascolto decisamente consigliato, comunque.
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Alberto Nucci
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