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MANNING One small step... Progrock Records 2005 UK

Con un booklet coloratissimo e la sua camicia hawaiana che sfoggia gli stessi colori di un jester, Guy Manning ci volta le spalle e, secondo me, sghignazza... anche se sulla copertina del suo settimo album da solista non si può vedere il suo volto. Chissà che la sua ironia non sia rivolta verso i Marillion, con quel pagliaccio assopito teneramente nella vasca da bagno e due iguane (al posto del camaleonte) in un angolo che vegliano sul suo sonno? "One Small Step..." è in effetti un album stravagante e basato su accostamenti insoliti, dominato nella prima metà da quattro brani medio-lunghi e nella seconda da una suite ("One Small Step... Parts I-VIII) di una trentina di minuti, spezzettata in tanti frammenti più o meno brevi. Le atmosfere predominanti sono quelle del country rock di stampo americano (avete letto bene), con chitarre arpeggiate con gentilezza dallo stesso Manning che sfodera una voce ruvida che ricorda un Ian Anderson giovanissimo; il flauto però in questo caso, quando presente, è quello di Martin Orford. Quando le canzoni sembrano farsi monotone e scontate, proprio sul più bello, vengono inseriti delicatissimi intarsi sinfonici, con tanto di violino, sax e tastiere soffusissime, e la musica prende una piega del tutto inaspettata regalando al paziente ascoltatore piacevoli sorprese. Abbiamo quindi una sorta di miscela fra folk e new prog con brani che oscillano dalle canzoni cantautoriali dal sapore quasi sudista, come "Night Voices" (in cui però viene inserito un sassofono alla Supertramp nella parte conclusiva a rompere la monotonia), a brani in cui prevale una delicata vena sinfonica, come in "No Hiding Place" che comunque, nella fase di apertura, conserva una forte impronta folk. La musica ha sempre un aspetto leggero ed invitante che in qualche occasione sfocia nel pop sinfonico più disimpegnato, come nella lineare lunga traccia di apertura ("In the Swingtime") che comunque tira fuori i denti, nella fase centrale, con una vigorosa escursione strumentale. Fra gli episodi più significativi mi piace ricordare l'intrigante "Black and Blue" (il movimento più lungo della suite con i suoi 7 minuti), una specie di ballad Floydiana blueseggiante, accompagnata da un sassofono notturno e ricami finissimi tratteggiati dagli altri strumenti che si intrecciano in maniera elaborata. Un disco che procede in maniera pacata e serena, su toni delicati, con momenti fatti di buone melodie, anche se non sempre coinvolgente ed appassionante, specialmente in quelle parti in cui le composizioni indugiano troppo a lungo sullo stesso tema.

 

Jessica Attene

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