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PHIL MILLER / IN CAHOOTS |
Conspiracy theories |
Moonjune Records |
2007 |
UK |
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Nuovo album per gli In Cahoots, che si ritrovano anch’essi ad affrontare il dolore per la scomparsa di Elton Dean. Come per i Soft Machine, anche per la band di Phil Miller il tragico evento comporta la necessità di reclutare un valido sostituto. Se i primi hanno voluto affidarsi ad uno degli astri emergenti di maggior spessore degli ultimi anni dell’area canterburiana, Theo Travis, il chitarrista ha preferito puntare su un vecchio marpione quale Didier Malherbe. Ma non è l’unico volto nuovo che si vede in “Conspiracy theories”: il trombettista Simon Finch, il sassofonista Simon Picard e Ann Whitehead al trombone vanno, infatti, a completare una formazione eccellente che vede, oltre il leader Miller e la new-entry Malherbe, anche Pete Lemer alle tastiere, Fred Baker al basso e Mark Fletcher alla batteria. Questa line-up di incredibile spessore e dalla base oramai collaudata è inoltre aiutata dagli ospiti Doug Boyle alla chitarra, Richard Sinclair al basso, Barbara Gaskin alla voce e addirittura da Dave Stewart che però non si esibisce alle tastiere, ma dà un piccolo contributo alle percussioni. Se nelle loro ultime apparizioni gli In Cahoots avevano ammaliato con un jazz-rock sicuro, diretto, suonato alla grande, ma con la piccola pecca di rivelarsi un po’ troppo manieristico, stavolta si denota un minor esercizio di stile ed una maggior passione. Sempre lontani da funambolici esibizionismi, i musicisti si divertono con un sound pulsante, ricco di vibrazioni positive, colmo di temi affascinanti, guidati dai vari strumenti che si alternano alla guida. Come sempre, Phil Miller lascia tanto spazio ai suoi compagni di avventura, la sua chitarra non è mai dittatrice e sono spesso i fiati ad andare in primo piano. L’interazione tra i musicisti è perfetta; padroni dei loro strumenti potrebbero far di tutto e lanciarsi in assolo prolungati e/o tecnicismi esasperati, invece mettono le loro doti al servizio di composizioni finissime, spesso morbide, e che possono compiacere sia gli amanti del genere, sia aiutare a chi non è avvezzo al jazz-rock a muovervi i primi passi. Tra le cose più belle l’eleganza formale della title-track, l’energia di “Press find enter”, gli echi vagamente Hatfield and the North di “Crackpot” e “Lydiotic”, i suoni curiosi di “Orinaca”. Malherbe è spesso mattatore, col sax, con il flauto, persino con strumenti più particolari come il doudouk o l’ocarina esegue sequenze affascinanti e accattivanti in continuazione. Ma, come dicevamo tutti hanno il loro spazio, tutti rivestono un ruolo fondamentale, tutti si rivelano come dei piccoli ingranaggi fondamentali di un meccanismo senza difetti che funziona alla perfezione.
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Peppe di Spirito
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