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METAPHOR |
The sparrow |
autoprod. |
2007 |
USA |
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Terzo album per i californiani Metaphor, band che da sempre ottiene riscontri contraddittori da parte di pubblico e critica: se da una parte stupisce la loro fedeltà alle sonorità coniate dai Genesis venticinque anni or sono (d’altronde si tratta di una cover band… “convertita”), dall’altra questa caratteristica preclude loro l’apprezzamento da parte di chi non digerisce la derivatività portata all’estremo. Esattamente ciò che accade con i nostri The Watch, band che non cito a sproposito o solo come pietra di paragone, bensì per l’aderenza quasi perfetta che riscontro tra la poetica del gruppo di John Mabry & co. con quello di Simone Rossetti.
Avevamo lasciato i nostri nel 2004 con un album (“Entertaining Thanatos”) che pur restando nei canoni genesisiani cercava timidamente di scrollarsi di dosso la sensazione del già-sentito, riuscendo con successo a mescolare qualche sporadico elemento estraneo, pur restando con entrambi i piedi nell’area di un prog sinfonico dal piacevole sapore retrò.
Il nuovo disco è un concept basato sull’omonimo, pluripremiato romanzo fantascientifico di Mary Doria Russell che narra il tentativo di colonizzazione (da parte di una spedizione di Padri Gesuiti) del pianeta Rakhat, scoperto grazie alla radiotrasmissione di una misteriosa musica… le liriche dei brani in effetti seguono minuziosamente la trama e sono riportate sul booklet in forma di dialoghi tra i personaggi - pur interpretati sempre da John Mabry ed in uno stile non propriamente “teatrale” - mentre la presenza di un certo numero di temi ricorrenti assicura un’unitarietà anche dal punto di vista musicale.
L’album si apre con due brani non certo trascinanti, episodi un po’ sottotono che non fanno presagire il meglio per lo sviluppo dell’opera e vivacchiano dell’eredità lasciata dalla band di Gabriel, senza nulla che possa far drizzare le antenne: ritmiche spezzate ma non troppo (cortesia del nuovo batterista Greg Miller), incursioni di una chitarra adeguatamente “anticata” su base di organo e synth. E’ con la successiva “Stella Maris” che apprezziamo finalmente variazioni sul tema, con un timbro di fisarmonica a sottolineare una melodia pacata e malinconica ed interventi calzanti di organo a canne (ricordate una certa “Awaken”?). Ed è qui che torna il paragone iniziale: mentre l’ondata di band anglosassoni degli anni ’80 prendeva a prestito l’aspetto più pomposo e trascinante dei Genesis, qui prevalgono tempi lenti e soffusi, brani che spesso si nutrono del giusto effetto atmosferico (“Stranded”) o del proprio incedere solenne (“Death in Eden”) più che di invenzioni geniali e colpi di scena; né contribuisce ad infondere brio una voce che pur piacevole difetta di pathos nell’interpretazione.
Un discorso a parte lo merita la lunga e frammentaria “Challalla Khaeri”, la cui melodia iniziale sembra uscire da un album degli Änglagård o dei Sinkadus, per poi lasciare il posto a sprazzi vagamente jazz-rock e baroccheggianti interludi di clavicembalo… qui ce n’è un po’ per tutti i gusti, ma il brano risulta in definitiva troppo schizofrenico e dispersivo (ecco che alcune somiglianze Flower Kings saltano alla testa, sia nei pregi che nei difetti!). Lo spettro dei Gentle Giant e dei tardi Gong di Pierre Moerlen anima la breve “Garden building”, ma si tratta di una parentesi isolata, così come gli interventi di natura corale/liturgica di “God will break your heart” che finisce per chiudere l’album citando apertamente “Los Endos”.
Tirando le somme, possiamo parlare di un album rassicurante, valido e ben suonato: un ulteriore passo avanti che però a causa della sua lunga (eccessiva?) durata e della totale latitanza di tocchi di “follia creativa” finisce per saturare un po’ l’ascoltatore più smaliziato.
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Mauro Ranchicchio
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