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MORVISCOUS |
Free pop |
autoprod. |
2007 |
UK |
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Non voglio a tutti i costi fare un discorso di consapevolezza, ma nel sottile, impalpabile confine tra ragione e inconscio, ipotizzandone la distinzione nella sola accessibilità più o meno diretta di un pensiero o di un’idea, mi chiedo se sia meglio fare un disco senza sapere esattamente quel che si sta facendo, oppure farlo sapendo, secondo per secondo, puntualmente, quel che si vuol dire e, in questo secondo caso, quanto la ragione abbia il sopravvento sull’istintività del gesto musicale.
Prendiamo questi Morviscous: quanta consapevolezza c’è nell’eseguire una musica riconducibile ad un qualcosa che quasi neppure si conosce? Quanto l’inconscia metabolizzazione di certe sonorità genera un feto che si sviluppa in un utero eminentemente diverso dal seme che vi è entrato, in un’ontogenesi esemplare?
Sveliamo l’arcano. I Morviscous sono parecchio avvicinabili alla scuola di Canterbury, ma forse neppure la conoscono. Nel loro immaginario gli elementi ispiratori sono Mingus, Zappa, Pharaoh Sanders e King Crimson e quindi, giustamente, si meravigliano non poco quando qualcuno li avvicina a Nucleus, Gong o Soft Machine. Il discorso forse è semplice e ricade in quelli che normalmente vengono indicati in antenati comuni sia al primo Brit Jazz, sia a questo, a cui non vorrei dare un nuovo nome, ma che porta a pensare ad una sorta di inconsapevole post-Canterbury.
Questa è la loro prima uscita completa (in precedenza solo due EP) e il titolo “Free Pop” è semplicemente geniale. Sono cinque londinesi e, tornando al discorso iniziale, l’unica consapevolezza che hanno è che da tutte le loro diverse esperienze, da tutti gli eterogenei gusti musicali, ciò che viene fuori è sicuramente Prog.
“Free Pop” è un disco emozionante, carico di idee, dove ovviamente non c’è solo il Jazz, pur essendone l’elemento cardine. C’è la schitarrata frippiana, come anche (realmente) qualche breve sequenza Pop. C’è dell’avanguardia zappiana, e delle distorsioni in moderno Jazz chitarristico. Non ci sono funambolici e memorabili assolo, non è questo il disco per ascoltarli, anche se, viste le capacità strumentali dei cinque, potrebbero esserci eccome: in realtà tutto è equamente tenuto in una sobria e matura esposizione tecnica, con le parti tonali di chitarre (Adam Coney e Nick Siddall) e fiati (Christian Berg) perfettamente intersecate alla sezione ritmica (Jonny Mac e Pete Bennie).
Dieci brani per 46 minuti di ascolto, che non chiede mai interruzione. L’album è così compatto da non consentire la scelta di un brano migliore o superiore agli altri, ogni brano è bello e importante dal più breve al più dilatato. Tutto fila in maniera splendida siano gli arzigogoli ritmici di “Uncle Fuck” tra Zappa e Soft Machine (il finale è assolutamente Third!), siano gli stacchi Malherbiani di “My Face Your Doily”, siano le delicatezze chitarristiche alla McLaughlin di “Abdominator”, fino alle incredibili diteggiature frippiane di “Small Pieces”.
Signori: grandissimo disco, grandissima fantasia, grandissima personalità …
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Roberto Vanali
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