|
DMITRY MAZUROV |
Creature on a lavatory pan |
Electroshock Records |
2010 |
RUS |
|
Chi, come il sottoscritto, abbia familiarità con l’immaginazione, credo abbia più volte inventato storie, o più semplicemente abbia messo in sequenza le foto e gli episodi della vita, unendo fatti chiaramente stampati nella memoria ad altri più nebulosi ed incerti. Se facendo ciò, si fosse accorto di meditarci sopra una musica, un corredo sonoro, credo avrebbe potuto immaginare qualcosa dal respiro simile a questo disco.
Questo Mazurov, compositore e pianista russo, della scuderia alternativa Electroshock, ha dimostrato la capacità di saper mettere in musica stati d’animo, siano essi di ricordo, d’inquietudine, di mistero e, spesso, di angoscia. Certo non è il primo e non sta inventando né un genere, né null’altro di folgorante, ma è stranamente familiare, ritrovare nelle sue sequenze sonore, nei suoi soundscape qualcosa che sa di intimo e di personale. E se nell’iniziale “Abyss” non c’è che il ristretto cerchio sonoro della spettralità e della solitudine, già con la traccia dominata dal pianoforte di “Luminous” iniziamo a intravedere quelle piccole chiavi che aprono i tanti cassettini della memoria, custoditi o nascosti nell’anima. Ma è un po’ come aprirli alla rinfusa, come se l’autore, con il suo minimalismo, ci proponesse solo delle sfilacciate sciarade, alle quali unicamente noi possiamo dare soluzione e risposta. E ancora Mazurov gioca, proponendoci di scavare ulteriormente, tra visi, sensazioni, profumi e malinconie che ci hanno accompagnati, e ci confonde, lascia tranelli nel percorso: gli strali noise e lugubri di “Burevo”, il ritorno della solitudine e dell’assenza di “Depths”. Queste sensazioni sono in grado di ucciderci in un vortice di nostalgica amarezza. Vortice senza fine, che accompagna i droni elettronici di “Surovista” con l’inserimento di una chitarra filtrata e effettata in grado di farci ripiombare, adolescenti, all’ascolto di “Ummagumma”. Anche con il suo avvio classico e romantico “Lethargie” porta ad uno sviluppo gradualmente avvolgente che ha, alla fine, un sapore obliquo, quasi avesse voluto riscrivere una ”Ave Maria” alla rovescia, oscura e ricca di pietosa mestitudine. E la danza impossibile continua, supportata dalla sconfinata desolazione e dalle paludose sequenze ritmiche della lunga, malata e ipnotica “Mask for Delicate Aesthetes”, che approda in un finale magico drappeggiato di tetra malinconia, espansa e accresciuta dalle lunghe note di chiusura. Gli elementi si sommano e si sottraggono, a volte con forza, a volte sembrano senza voglia, apatici, incaricati di sostituire un suono piuttosto che un altro. Ma in realtà ogni sostituzione è sofferenza, è esposizione di carne lacerata e di ossa scomposte, senza protezione, sì che l’anima le possa vedere e non le faccia cadere dimenticate. La conclusiva “Sister of Gloom”, con il suo violino, illumina il sentiero finale con il lume della follia, in un mood di dannazione, e la taumaturgica marcia elettronica del suo atto finale ci spedisce via, dritti, con la coscienza immacolata, mondata dalle creature che l’ascolto ha risvegliato.
Elettronica, classica, ambient, orchestrale, dark, soundtrack, è importante? No, bene, misuratevi con il vostro intimo più recondito.
|
Roberto Vanali
|