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NICK MAGNUS Children of another god Camino Records 2010 UK

È da elencare nelle stranezze, prendere un disco carichi di scetticismo e trovarsi poi ad ascoltare un lavoro che di diritto andrà a finire nelle cose migliori dell’anno. Lo scetticismo derivava dall’ultima e penosa uscita collaborativa tra Nick Magnus e Pete Hicks (“Flat Pack”) e, ritrovandoli qui entrambi, la preoccupazione di un bis negativo era piuttosto alta. Sorpresa: il disco suona alle mie orecchie proprio come dovrebbe suonare un gran disco di prog sinfonico!
A cominciare dagli ospiti del tastierista e tuttofare padrone di casa subito le speranze sono accresciute: Steve e John Hackett ovviamente per chitarra e flauto, Glen Tollet dei The Enid al basso, Tony Patterson dei ReGenesis alla voce, insomma … viene da pensare.
Già nei lavori precedenti, specie in Hexameron, Magnus aveva presentato un discorso abbastanza affine alle atmosfere create con i lavori di Hackett che lo vedevano al seggiolino delle tastiere e anche per questo potevamo plausibilmente attendere una conferma di stile, quindi vediamo nel dettaglio cosa succede in questo lavoro.
Fin dai primi momenti si possono apprezzare sonorità decisamente hackettiane, ma non qualsiasi, perché i riferimenti sono, pur in senso più moderno, quelli di “Spectral Mornings”, con movimenti molto ricchi e al contempo delicati, carichi di melodia e di armonizzazioni vocali al limite del sublime. In ogni brano la materia in gioco è di spessore elevato: la tecnica perfetta dell’esecuzione, il songwriting estremamente professionale e accorto ricco di spunti emotivi e coinvolgenti, la voce gabrielliana di Patterson, la produzione, l’engineering, la pulizia dell’incisione stessa, tutto contribuisce all’ottimo prodotto finale.
Steve Hackett e Tollet sono gli unici, oltre a Magnus, ad essere presenti sempre e specie nei confronti del primo non si può che togliersi tanto di cappello, per la mirabile qualità degli assolo e degli arpeggi, con quelle note che ci fanno cadere a capofitto in un mondo che amiamo oltremodo, così pregno di fascino progressivo e di suoni che hanno rappresentato una vita di crescita stilistica e di ascolto, andati di pari passo da non so neppure più quanti anni.
Particolare strano: leggendo la line-up pare che nessuno suoni la batteria, quindi o la suona lo stesso Magnus, con capacità tipiche da grande batterista prog, o è da lui stesso programmata, se così fosse, non ho mai ascoltato batteria finta più reale di questa.
È splendido perdersi nei meandri sinfonici orchestrali creati da Magnus e soci: ci sono momenti che ci si dimentica di essere all’ascolto di un disco prog e gli spunti classici prendono in sopravvento come nella prima parte della splendida “The Colony is King”, che evolvendosi finisce in un movimentato prog chitarristico di notevole raffinatezza o nella conclusiva “Howl the Stars Down” o, ancora, in “The Others” dominato dalla voce della bravissima Linda John-Pierre. Impossibile non citare la title track, impostata su un crescendo che porta ad aperture sinfoniche da brivido e la sua appendice “Babel Tower” di crimsoniana memoria. Menzione anche per “Doctor Prometheus”, forse più orecchiabile e ritmicamente più immediata, ma così ricca in melodia e con un assolo finale di Hackett, che risulta realmente da lacrimuccia e per lo strumentale “Twenty Summers” che sembra uscito da un manuale di progressive settantiano.
Insomma, riassumendo, ci sono momenti di questo disco che suonano più hackettiani e meglio rispetto alle produzioni dello stesso Hackett, non prendetelo come una bestemmia, anche perché lo zampino del maestro qui è più che evidente, è che se sulla copertina il nome fosse stato di qualcuno più blasonato, saremmo tutti qui a gridare al nuovo capolavoro sinfonico dell’anno.
Per romantici incalliti, sinfonici senza sosta, progster melodici e affini: superconsigliato!



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Roberto Vanali

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